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Perché la pratica della riappropriazione di spazi anche fisici è efficace in un’ottica anticapitalista?

Alcune riflessioni sviluppate all’interno del laboratorio “Until the revolution” riguardo la riapertura di spazi come creazione di cortocircuito nei confronti del sistema riproduttivo capitalista.

Ci siamo chiesti dove situare una lotta ecologista che miri ad individuare i responsabili della crisi ambientale e i meccanismi con cui il sistema vigente perpetua il proprio dominio, per sviscerarne contraddizioni e modalità, così da creare delle rotture. Partendo dal presupposto che il concetto di natura sia qualcosa da decostruire, perché coniato e finalizzato alla riproduzione di un sistema basato sulla contrapposizione binaria tra un mondo civilizzato e uno selvaggio da dominare e assoggettare, che oltretutto viene immaginato come “femminile”, ci troviamo a guardare la lotta ecologista da un altro punto di vista rispetto a quello canonico. La centralità sta quindi nel riflettere non tanto sulla difesa della “natura” in sè, poiché per noi esso è un concetto vuoto, ma dei territori e del vivente, un qualcosa che comprende anche noi esseri umani e che quindi ci porta a non vederci distaccati da ciò che sta all’interno dell’ecosfera. Facciamo parte di quella macro categoria che dal capitalismo viene vista semplicemente come valore da estrarre grazie alla dominazione. Di conseguenza una lotta ecologista che abbia questi presupposti non si concentrerà sulla semplice difesa dell’ambiente, come qualcosa di esterno a noi, ma si porrà in conflitto con gli artefici dello sfruttamento scellerato di territori ed esseri viventi, per contrastare il meccanismo di un sistema strutturato sulla dominazione dell’uomo bianco, eterosessuale, cattolico ed europeo, colonizzatore della vita per l’estrazione di valore. Proprio per questo pensiamo che le lotte transfemministe, antirazziste, dei/delle/* migrant, ambientaliste e dei/delle/ lavoratori e lavoratrici facciano parte di una stessa composizione eterogenea che lotta contro lo sfruttamento del vivente e che fanno fronte ad uno stesso nemico. Per scardinare questo sistema riproduttivo e i suoi infiniti tentacoli, che si srotolano nella nostra cultura, nei luoghi di lavoro, nelle strade che percorriamo, nei posti che frequentiamo, a casa e nei luoghi di formazione è necessario creare delle spaccature, che mandino in tilt quell’andamento costante, che mira semplicemente a produrre sempre più profitto a ritmi sempre più veloci. Questi bug si possono generare trovando il modo di bloccare quel sistema riproduttivo. Per questo l’occupazione può essere una pratica molto efficace, poiché si pone in contrapposizione frontale con un modello di sviluppo che costruisce laddove ci sono parchi rigogliosi nonostante ci siano immobili vuoti e persone senza casa che non saranno comunque destinate ad alcun riparo; che compone oggetti con il conto alla rovescia dell’ obsolescenza programmata; che produce capi di vestiario sporchi di sangue e sudore, che dopo una settimana vengono decretati abbastanza fuori moda per essere buttati, cosicché se ne possano produrre altri, mentre gli scarti finiscono ad oscillare in forma di microplastiche in balia delle onde del mare; che costringe a scegliere tra lavoro e vita, che rende anche la felicità e i desideri null’altro che meccanismi per la sua alimentazione. In questo scenario decidere di fermarsi ed andare a liberare uno spazio vuoto, che l’unica finalità che potrebbe avere verrebbe fuori se ci fosse qualcuno ad investirvi è un atto di estrema rottura. Perché è agire per rendere un luogo libero dalle logiche di un sistema che mira ad andare sempre e solo avanti a ritmi folli secondo le logiche di produzione, facendo sì che possa essere attraversato da quante più soggettività possibile per rispondere aipropri bisogni e alle proprie necessità, senza dover pagare un prezzo, dove potersi trovare per parlare, nelnostro caso, di tutte quelle tematiche che in università a loro volta, proprio come noi, non trovano spazio. Per poter generare un luogo che anziché esistere per creare del guadagno, possa invece essere usufruito per autorganizzarsi e pensare a come agire sciopero e agitazione, per far sì che di pratiche come questa se ne sviluppino sempre di più. Abbiamo deciso di agire in un’ università perché è un luogo che fa a pieno parte delle logiche capitaliste, poiché è a tutti effetti un’azienda, terreno per gli affari, che risponde alle esigenze dei grandi investitori e non degli/delle student* che la attraversano ogni giorno, che sono visti solamente come clienti ambulanti. Noi vogliamo scardinare questi meccanismi, perché crediamo che l’università debba essere un luogo di condivisione e germoglio di sapere critico, che risponda ai bisogni degli student* e dove i numerosissimi spazi vuoti, inutilizzati, o utilizzati solo apparentemente, vengano riempiti. Perché noi siamo esattamente come quei cataclismi che si stanno manifestando in tutto il mondo, siamo il vivente che è stanco di questa oppressione e si sta ribellando!

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