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Capitale e conflitto al ritmo della città globale

Come riflettere sui recenti avvenimenti mondiali, sulla situazione di instabilità percepita, sulle numerose sollevazioni che insorgono secondo un andamento che può sembrare puntiforme a primo impatto, provando a tenere insieme contesti diversi ma forse non così lontani e senza cadere in riflessioni millenariste (sia che si tema l’apocalisse sia che si speri nel sol dell’avvenire)? Proviamo a farlo utilizzando la solita lente materialista e partiamo quindi dal chiederci cosa hanno in comune società così apparentemente diverse, portatrici di culture e rette da regimi politici differenti, come l’Iran e la Francia, il Cile ed Hong Kong, il Libano e la Colombia. In tutti questi paesi, come in quasi tutto il pianeta, vige un sistema economico capitalista e gli esseri umani si sono organizzati per vivere in città. E’ poco ma non è niente.
Nel corso del XX secolo numerosi studiosi si sono andati sempre più ad interrogare sul futuro della forma-città, chi più interessandosi alle soggettività che la abitano (Sociologia Urbana) chi più alla sua forma fisica ed estetica (Urbanistica) tutti però turbati dallo spettro di trovarsi sull’orlo di un doppio baratro: urbanizzazione totale del globo (e quindi formazione di una sola grande ecumenopoli) da una parte, scomparsa della città (e conseguente scomparsa della “civiltà ”).
Quindi a che punto è la città adesso? Prima di provare una generale linea di tendenza sullo stato della forma città nel mondo è necessario svelare chi decide ormai sulle città e sul loro sviluppo fisico e sociale. Le trasformazioni della città oggi sono guidate da attori molteplici spesso in conflittualità fra di loro ma sempre di più notiamo l’influenza di attori transcalari.

Intendiamo con questo termine grandi società multinazionali spesso senza una sola sede fisica che sia legale, amministrativa o finanziaria. Grandi società il cui raggio d’azione è l’intero pianeta ma la cui azione ha ricadute pesanti sulla forma, sulla politica e sulla vita di singole aree metropolitane, città, comuni, quartieri. Società di questo tipo sono spesso operanti nel campo dell’e-commerce, utilizzano la filosofia industriale del just in time per cui l’importante è far arrivare il proprio prodotto ovunque e nella maniera più celere possibile al fine di evitare l’accumulo di scorte. Seguendo una logica del genere così accelerata, diventa sempre più fondamentale l’appoggiarsi a piattaforme digitali capaci di garantire interconnessione istantanea ed il poter contare su una efficiente logistica, seguendo la quale il tessuto urbano si deve rimodellare in maniera fluida.
Sono quindi le necessità del capitale a determinare le trasformazioni della forma urbana dell’oggi. Chi decide oggi sullo sviluppo delle città sono forme di governance ibride private/pubbliche.  Un capitalismo mondializzato ha necessità di estendere la forma urbana, quella in cui è nato e sviluppato, a tutto il mondo. Si crea quindi una situazione di città-mondo, concetto che può essere inteso in una duplice direzione: il mondo che si fa città e la città che si fa mondo. Seguendo la prima direzione vediamo il crescente fenomeno della delocalizzazione e iperframmentazione della produzione in luoghi del pianeta distantissimi. Vediamo quindi un’azienda cinese che appalta l’allevamento dei maiali ad allevatori statunitensi, la coltivazione della soia necessaria a nutrirli a grandi latifondisti brasiliani che quando non hanno terra sufficiente la vanno a comprare in Mozambico. Le catene del valore si possono quindi articolare lungo quattro continenti traendo profitto da ognuno di essi. Ma proviamo a guardare nella seconda delle direzioni del concetto di città-mondo: la città che si fa mondo. E’ in continua crescita lo svilupparsi di soggetti urbani dalla grandezza incredibile, le megalopoli. Esse nascono dall’urbanizzazione degli interstizi fra più città tradizionalmente intese (determinate cioè da confini e istituzioni precise) e più aree metropolitane; urbanizzazione che si sviluppa in particolare ai margini delle grandi vie di comunicazione sempre più necessarie al capitale. Esempi principe di tale grandezza sono la megalopoli del Northeast degli USA, la cosiddetta Bos-Was che comprende l’area che lungo la costa va da Boston a Washington D.C. tenendo dentro quindi anche New York e Philadelfia, o la Taiheiyō Belt che si sviluppa in Giappone lungo la linea del treno Shinkansen (prima grande rete di treni ad alta velocità al mondo). Agglomerati urbani di questo tipo, che tengono insieme anche 80 milioni di abitanti, vedono al loro interno intere catene del valore. All’interno delle megalopoli, ma anche all’interno di una realtà più vicina a noi come la metropoli milanese che comprende tutta la Lombardia arrivando fino alle province di Piacenza e Novara, si sviluppa tutta la catena di interi settori produttivi: dalla progettazione alla produzione, al marketing, alla finanziarizzazione, al riciclo. La presenza di queste catene, che non sono immobili ma rantolano a seconda di dove fiutano profitto, porta le città ad adattarsi ad esse in una maniera frenetica e in una logica di elevata competizione le une con le altre. Lo sfarzo della metropoli ricca, produttiva e adesso anche smart ha però anche un dietro le quinte fatto di forza-lavoro intellettuale e manuale, sottopagata e ad alta precarietà, spesso giovane o migrante. Questa forza-lavoro è sottoposta al turbinio della metropoli e spesso costretta a vere e proprie migrazioni interne (alla stessa area metropolitana) nel nome della riqualificazione di quelle zone grigie fino a quel momento ignorate dal capitale.
L’incredibile velocità a cui viaggia il capitale, servendosi delle piattaforme logistiche come le città, sembra rendere estremamente connesso ogni angolo del pianeta. Piattaforme comunicative senza precedenti inoltre, sembrano riuscire ad aggirare quasi tutte le forme di censura digitale e informatica messe in atto in numerosi paesi. E’ questa interconnessione sicuramente fondata sulla necessità del capitale di arrivare sempre più lontano, di crearsi e abbattere nuove frontiere, ma è anche veicolo delle contraddizioni che il capitalismo ha in sé. Con queste contraddizioni viaggiano anche, e lo fanno ad una velocità sempre maggiore così come il capitale, possibilità di conflitto sociale. La maggiore velocità può portare sia ad una più rapida sussunzione di questi conflitti sia ad un più violento scontro con lo stato di cose presenti. Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’esplosione di numero incredibile di tensioni sociali e rivolte in luoghi distantissimi del pianeta: Sudan, Algeria, Argentina, Cile, Colombia, Bolivia, Libano, Iraq, Iran, Hong Kong, Francia, Catalogna e tanti altri. Le motivazioni delle rivolte non sono le stesse (anche se in alcuni contesti differenti sono stati simili come in Libano e Cile) ma il dato che dobbiamo trarne è la presenza stessa di queste rivolte in uno stesso arco di tempo molto breve.

Mobilitazione popolare in Libano

Se l’uragano del Capitale si muove sempre più velocemente sulla mappa mondiale e con sempre maggior forza è determinato a sussumere ciò che è esterno a sé vale a dire il vivente, con sempre maggiore velocità si muovono le sue contraddizioni e le sue storture con le possibilità di conflitto che portano in loro. L’accelerazione del Capitale ha quindi in sé anche l’accelerazione del conflitto che potrebbe distruggerlo.
Ciò che sembra succedere in varie e apparentemente distanti parti del mondo è un rigetto delle politiche di austerità conseguenti la crisi finanziaria del 2008. L’aumento dei prezzi della metropolitana o della benzina, l’indizione di una tassa sui servizi di Whatsapp o altre piattaforme VoIP (Voce tramite protocollo Internet, ovvero chiamate e messaggistica che utilizzano la rete internet) o i soliti noti pacchetti di riforme targate FMI sono i pretesti di alcune vere e proprie rivolte popolari che però sono il sintomo di una situazione comune dal Sud America al Medioriente e all’Europa: lo scollamento dalla favola della mondializzazione capitalistica. Mentre anche USA e Cina sembrano crederci meno, impegnate in una guerra tecnologica ed economica inter-imperialista, nelle periferie del mondo e nelle periferie dei centri di potere ci si è ormai disillusi. Venuta meno una grande immagine di futuro luminoso, il realismo capitalista si sta disvelando in tutto il suo grigiore e marciume.
Poco più su abbiamo scritto di come il Capitale punti alla sussunzione di ciò che è vivo, di ciò che ancora non segue le logiche del mercato, del vivente. Il Capitale punta a sussumere e ad inglobare in sé le relazioni personali e sociali, le emozioni, le produzioni culturali, il pensiero; lo fa mercificando e dando loro un prezzo o comunque ideando un modo con cui trarne profitto. Con le stesse modalità, nei secoli precedenti l’uomo (non l’essere umano nel suo complesso ma un determinato gruppo: maschi, bianchi/occidentali, eterosessuali) ha mercificato altre porzioni di vivente: le altre etnie, la natura intesa come ambiente esterno alla città, le donne e le altre soggettività non conformi. Il processo di mercificazione è andato di pari passo con un processo di gerarchizzazione: bianco superiore al nero, uomo superiore a donna, cultura superiore a natura. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’esplodere, in forme diverse fra loro, di movimenti sociali che puntano al riscatto del vivente ed al sovvertimento di queste gerarchie. La grande (secondo una classica e non precisa catalogazione è la quarta) ondata femminista in cui rientra il movimento di Ni una menos ed il suo corrispettivo italiano Non una di meno e la sollevazione ambientalista dei movimenti globali Fridays for Future ed Extinction Rebellion oltre che di una miriade di movimenti locali possono essere letti come l’espressione del rifiuto di riprodurre una società caratterizzata da un sistema culturale gerarchico funzionale al reggimento di un sistema economico che per sua stessa natura è predatorio e senza scrupoli.

Flash Mob di Non Una di Meno a Bologna lo scorso Dicembre (ph. Michele Lapini)

Ci troviamo quindi in un periodo storico dove oltre al dilagare in tutto il globo di rivolte locali o nazionali, assistiamo anche al crescere di movimenti transnazionale che hanno come raggio d’azione e d’interesse l’intero pianeta. Il caso delle rivolte popolari in Cile è emblematico di come queste due tipologie di conflitto possano convergere e anzi debbano farlo per puntare ad un cambiamento sistemico e cioè radicale. Le proteste nel paese sudamericano sono iniziate il 18 ottobre quando gli studenti di Santiago sono scesi in piazza contro l’aumento dei prezzi della metropolitana ed hanno praticato un’autoriduzione di questa. Da qui è partita una sollevazione generale carica del risentimento verso trenta anni di liberismo spietato legittimato da una Costituzione scritta sotto la dittatura di Pinochet. Una sollevazione che ha resistito alla feroce e immediata repressione dei carabineros cileni: l’utilizzo di acqua con sostanze urticanti, l’utilizzo di cocaina, le violenze e gli stupri fino alle vere e proprie esecuzioni hanno mostrato uno stato mai uscito del tutto dalla dittatura. In questo clima le lotte di tutto il Cile si sono parlate e riconosciute come strettamente connesse: il popolo ribelle dei Mapuche che lotta da decenni contro lo sfruttamento e l’usurpazione dei propri territori fra Cile e Argentina da parte di grandi multinazionali fra le quali l’italiana Benetton, la mobilitazione femminista guidata dal Coordinamento 8M e portatrice di un esplosivo antiautoritarismo e antimilitarismo. Con la meticolosa organizzazione e riproduzione di una protesta che va avanti da mesi, con le occupazioni dei Mapuche e le piazze e le azioni femministe (non pacifiche ma violente nei contenuti e nella forza delle accuse) il popolo cileno sta dimostrando di essere ad un livello di consapevolezza e azione altissimo. Una scritta apparsa sui muri di Santiago diceva “No era derpesiòn, era capitalismo”. Una rivolta che arriva spontaneamente a ripoliticizzare i disturbi psichici dimostra di essere il paradigma del vivente che si ribella all’oppressione mortifera del Capitale.

Bandiere Mapuche durante una manifestazione in Cile

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Caro Carlo Nel bel mezzo di un ventennale in cui da tutte le parti ci si sporca la bocca sproloquiando, reinterpretando, e dissociandosi, noi continuiamo a raccogliere da terra quell'estintore. Cospirando, combattendo e sognando.

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