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Creano problemi per trovare soluzioni: perché la questione abitativa non è un’emergenza

Chiunque viva o desideri vivere a Bologna negli ultimi anni sa ormai quanto sia difficile trovare una buona stanza, magari vicino al proprio dipartimento universitario o alle zone di aggregazione o a determinati servizi, ad un prezzo decente. I dati riguardanti l’aumento dei canoni d’affitto nella nostra città sono ormai quasi un mantra: il 2019 ha registrato un aumento medio del 15% e si prospetta un ulteriore aumento del 7% per il 2020 (fonte: Federazione degli agenti immobiliari, Fiaip). I prezzi delle camere singole ormai non sono inferiori ai 400€ mensili, trovare una doppia in buono stato sotto i 250€ è un gran colpo di fortuna. Potremmo anche fermarci qui e far notare che a fronte di questi aumenti, l’importo massimo delle borse di studio erogate da Er.go non sia stato adeguato restando sui 5300€ annuali per la fascia di reddito più bassa (530€ al mese, considerando due mesi di vacanza annui per i fuorisede, con cui pagare affitto, bollette e riproduzione in genere) oppure che a fronte dei 35 mila fuorisede Er.go metta a disposizione solo 1600 posti letto. Vogliamo però capire il perché di questa crescita senza fine.

L’aumento dei prezzi è in sostanza causato dalla cara vecchia legge della domanda e dell’offerta: cresce la domanda di alloggio a Bologna ma diminuisce l’offerta sul mercato (circa 10% sempre secondo la Fiaip). La costante crescita di iscritti all’Alma Mater Studiorum è ormai cosa nota (+8,2% quest’anno) e sicuramente influisce, ma si sta ormai consolidando l’idea che sia anche effetto dell’aumento degli affitti a breve termine il cui mercato poggia sulle piattaforme online come AirBnB e Booking.com.

Affittare a breve termine su queste piattaforme permette infatti un guadagno rapido e a minor rischio appetitoso per chiunque. Sarah Gainsforth nel suo recente libro AirBnb città merce scrive che “con AirBnb siamo diventati tutti speculatori”. Noi riteniamo che la situazione sia un po’ più complessa (il che non implica soluzioni meno radicali, anzi): possiamo davvero paragonare lo studente o il da sempre precario che per tirare avanti sub-affittano la propria stanza a palazzinari che arrivano a gestire sulla piattaforma anche 74 appartamenti solo a Bologna (record di Halldis, società immobiliare che opera in 26 città)? Solo il 55% degli annunci sulla principale piattaforma sono gli unici per gli utenti che li pubblicano.

La Sharing Economy si dimostra sempre più per quello che è: una riproposizione in salsa pop degli assiomi neoliberisti della deregolamentazione e della competizione. Alla luce di questo, appaiono ingenui i tentativi da parte di poteri locali di regolamentare l’irregolamentabile; anche perché si sa che quando il capitale è in difficoltà, la politica corre in suo aiuto. L’emendamento del PD al Decreto Mille proroghe, che avrebbe permesso ai comuni di regolamentare o meno gli affitti a breve termine, è saltato a causa dell’ostruzionismo di Italia Viva (Renzi, why always you?). Ma questi tentativi, che a Bologna sono stati portati avanti dalla maggioranza del consiglio comunale, risultano ancora più ingenui in quanto si muovono in una direzione opposta rispetto a quella che loro stessi stanno dando alla città.

Occorre smettere di reiterare la retorica dell’ ”emergenza abitativa”, non lo è. Nel vocabolario Treccani, la definizione di “emergenza” è: “Circostanza imprevista, accidente”. Come si può pensare che sia imprevista una situazione causata dall’applicare una volontà politica precisa da anni?


Siamo di fronte, a Bologna come in tante altre città, ad una pianificazione urbanistica che inverte le proprie priorità: preferendo infrastrutture per i visitatori a quelle per i residenti, snaturando la città in questione e rendendola più un set per eventi che un luogo in cui vivere.  Anche Bologna sta quindi diventando teatro di quel processo che è ormai definito come turistificazione, termine importato dall’inglese turistification, che indica in maniera generica gli effetti del turismo di massa sulla città. Le zone maggiormente colpite da questo “restyling” perverso sono quelle del centro storico, un tempo cuore pulsante della vita (sociale, politica, studentesca) di Bologna ed ora ridotto ad essere una mera immagine in vetrina di sé stesso o, per meglio dire, un mausoleo di ciò che fu e che non si vuole più far riproporre. Lo spettro di ciò che è diventato il centro storico di Venezia inizia ad aleggiare sotto le due torri. Nella città lagunare i residenti sono quasi un ricordo – da 150 mila a 50 mila in cinquant’anni – mentre sono diventati realtà addirittura dei tornelli di accesso e sensi unici per i percorsi di visita turistica. In contesti come questi, le esigenze del tradizionale tessuto sociale diventano sempre più inconciliabili con le zone interessate da questo processo: sia per fattori economici, ovvero il forte aumento del costo della vita dettato da un’economia incentrata sul turismo, sia per fattori sociali, poiché la museificazione delle strade rende sterili e vuoti quelli che prima erano luoghi di aggregazione. Il risultato è un progressivo abbandono del centro da parte degli studenti, rendendo quest’ultimo uno spettrale e artefatto villaggio turistico per visitatori abbienti.

Il centro storico quindi come F.I.C.O., parco giochi di spettacolarizzazione del cibo, “fabbrica contadina” nella quale trovano posto solo grandi aziende, cooperative e consorzi dell’alimentare. Il parco di Farinetti è inoltre l’emblema della “brandizzazione” di Bologna come city of food e non più “la grassa”. Una linea di bus dedicata (costantemente inutilizzata) ci dà la cifra dell’asservimento dell’amministrazione comunale a questo tipo di offerta turistica; amministrazione che è anche stata costretta a prendere dei provvedimenti per contrastare la congestione gastronomica del centro dovuta alla folle media di un ristorante ogni 33 abitanti.

La brandizzazione della città non si limita solo al city of food, ma anche la vita universitaria diventa elemento attrattivo per turisti e campo speculativo. Si sta ormai completando infatti la costruzione del nuovo studentato privato di lusso The Student Hotel: un progetto pacchiano, per pochissimi (una camera singola nella sede di Firenze viene quasi 1000€ al mese) che sorgerà in Via Fioravanti al posto di quella che era l’occupazione abitativa Ex Telecom, dove per un anno hanno vissuto circa 80 famiglie bisognose di un tetto. Un progetto che risulta odioso anche per come si comunica all’esterno: vantandosi di essere portatore di “ribellione artistica”, di sorgere nel quartiere, quello della Bolgonina, che è “il cuore pulsante della ribellione (aridaje) dell’avanguardia artistica di Bologna” (qualcuno dovrebbe dir loro che i progetti di speculazione come questo hanno represso un quartiere che era veramente ribelle oltre che multiculturale).

In quest’ottica di estrazione di profitto dal “bello” (e dal buono) va letta anche la recente presentazione dei portici di Bologna come candidati a Patrimonio Mondiale dell’umanità Unesco per il 2021. Quello che ormai da mesi sta venendo presentato come un evento di straordinaria importanza culturale, non è altro che l’ennesimo tassello del grande percorso di monumentalizzazione – che questa volta mira a snaturare una delle parti più caratteristiche e vive della città – e la ciliegina sulla torta che celebra la trasformazione di Bologna in città turistica.

La proliferazione di etichette di riconoscimento di un non precisato valore artistico culturale (come capitale italiana della cultura, capitale europea ecc.) è indizio di come queste siano diventate dei veri e propri oggetti di contesa economica tra le città. Etichette/riconoscimenti culturali cosa portano? Un nuovo entusiasmo per l’elaborazione di cultura o semplicemente un incentivo al suo consumo? Dal nostro punto di vista, da un lato assistiamo ad una gerarchizzazione della bellezza secondo canoni prestabiliti e strettamente legati alla “vendibilità” di un determinato bene culturale, ormai trattato a tutti gli effetti come prodotto capitalistico; dall’altro all’innesco di una spietata competizione tra le amministrazioni cittadine che nel tentativo di arrivare ai vertici di questa gerarchia, portano avanti politiche di devastazione del tessuto sociale.

A tal proposito ci permettiamo di inserire un estratto dell’intervento di Giovanni Semi al convegno “Per una critica della città globalizzata” tenutosi al Laboratorio Crash! nel maggio 2018:

Intere regioni, provincie, città e persino quartieri lottano da anni gli uni contro gli altri per ricevere l’agognata etichetta che consentirà loro, in maniera spesso quasi magica, di attirare nuove masse di turisti, di investimenti e relative promesse di sviluppo. Perché questa crescente patrimonializzazione funzioni, c’è bisogno sempre maggiore di istituzioni culturali che, dall’alto della loro reputazione derivante dal solo riferimento alla nozione di Cultura, certifichino l’autenticità di ciò che autentico non può essere, si tratti del paesaggio o della storia. Musei, eventi, retoriche fioriscono in ogni dove e creano dei vortici spazio-temporali che inghiottono energie e aspirazioni. Ovunque si diffondono attività di story-telling locale, si ampliano i margini per il branding urbano, ma quello che viene venduto, arricchito di narrazione, è un passato mitizzato, spogliato dai conflitti, dalle storie non ufficiali, e reso innocuo, piacevole, autentico.

 Tornando al caso particolare dei Portici, riprendiamo le parole di Dario Franceschini, Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo: “I portici sono straordinari e unici e sono sicuro che con la loro bellezza conquisteranno il mondo. Questa candidatura è motivo di orgoglio […]”. I portici a Bologna non sono mai stati solo un elemento architettonico, sono un sinonimo delle strade, non hanno mi fatto parte dello “sfondo” ma si sostanziano da sempre come protagonisti attivi della vita della sociale: tramite i propri murales parlano giornalmente il linguaggio delle lotte che attraversano ed hanno attraversano il mondo, grazie ai manifesti affissi sono una bacheca in costante aggiornamento rispetto a tutte le attività politiche e di aggregazione che questa città offre, si sostanziano come il vero luogo della socialità bolognese vissuto attivamente sia di giorno che di notte. Questa qui è la reale bellezza dei portici, una bellezza disinteressata e creata spontaneamente dell’intreccio di culture che come delle piante rampicanti hanno rivestito, dato colore e infuso vita a quelli che altrimenti sarebbero stati dei meri monumenti strutturali, tanto belli quanto ordinari.

Una tale monumentalizzazione dei portici – e di conseguenza delle strade del centro – ha un rovescio della medaglia in parte involontario e in parte no e si inserisce a puntino nel tentativo di normalizzare la zona universitaria che UNIBO e Comune di Bologna portano avanti ormai da tempo. Infatti: da una parte il cessione di una determinata zona alla logica estrattiva del turismo di massa porta in maniera quasi macchinica all’espulsione di una certa popolazione autoctona eccedente non ricollocabile negli schemi dell’arricchimento.   D’altra parte il tentativo di ottenere un “set cinematografico” a misura di turista, può essere il “cavallo di Troia” ideale con cui spogliare di carica politica quella che da sempre si è mostrata come una zona conflittuale. In poche parole, è in atto una nuova fase della città di Bologna, un cambiamento sia strutturale che sociale, in cui non vi è posto per chiunque non sia addetto ai lavori o non rappresenti il futuro fruitore di questo grande parco giochi in costruzione.

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Caro Carlo Nel bel mezzo di un ventennale in cui da tutte le parti ci si sporca la bocca sproloquiando, reinterpretando, e dissociandosi, noi continuiamo a raccogliere da terra quell'estintore. Cospirando, combattendo e sognando.

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