Home / Senza soldi non si cantano messe / Voci dal precariato: il mondo dello spettacolo

Voci dal precariato: il mondo dello spettacolo

Segue la testimonianza di F., giovane lavoratrice del mondo dello spettacolo. Quando c’è stato il primo lockdown, stava facendo un tirocinio presso il Teatro Comunale: con lo scoppiare della crisi, non avendo in mano un vero contratto come lavoratrice dello spettacolo, ha avuto ben poche garanzie. Come per tantissimi e tantissime giovani, quello che era un lavoro con il quale mantenersi a Bologna si è dissolto senza lasciare traccia: né con una forma di reddito diretto, né come reddito indiretto F. e molt* altr* sono stat* tutelat*, venendo invece lasciat* indietro, senza indennizzi sufficienti non tanto a vivere dignitosamente, ma proprio a vivere, sopravvivere. 
Come per molte altre categorie lavorative, per lavoratori e lavoratrici del mondo dello spettacolo è adesso diventato ancora più difficile trovare un lavoro: rimanere a Bologna è diventato, così, impossibile per tanti e tante, come per F. Ora la domanda è se potrà tornare nella sua città e che scelte, non solo di lavoro ma anche di vita, dovrà fare per continuare a stare a galla in una pandemia mondiale, in una crisi sociale ed economica di così grandi proporzioni, in un sistema che ha normalizzato la precarietà e non offre alcuna garanzia ai più.

Prima della pandemia stavo facendo un tirocinio professionalizzante presso il Teatro Comunale di Bologna, un tirocinio che si svolgeva su sei mesi di durata, con un contratto da tirocinante retribuito 450 euro al mese, per lavorare 6 giorni a settimana e con un massimo di otto ore lavorative al giorno. Quando è scoppiata la pandemia io ero al quarto mese di tirocinio, che è stato ovviamente interrotto perché si svolgeva all’interno di un teatro e i teatri sono stati tra i primi luoghi della cultura a chiudere. 
Io svolgevo principalmente dei compiti di assistenza ai miei superiori, che erano tenuti ad insegnarmi varie mansioni per poi potermi abilitare alla professione. Ho avuto la possibilità di accedere a questo tirocinio professionalizzante perché i 6 mesi precedenti li avevo passati a fare un corso – che abilitava alla professione di tecnico del suono – sponsorizzato dal Teatro Comunale di Bologna e finanziato da fondi dell’Unione Europea. Alla fine di questi sei mesi mi hanno proposto di fare altri sei mesi di tirocinio retribuito all’interno del teatro, per poter ottenere così un’altra abilitazione ed esercitare la mia professione con delle ulteriori qualifiche. 
Fondamentalmente, il punto era che il teatro aveva necessità di ottenere manodopera a basso costo: nonostante io fossi in apprendistato (con dei professionisti che mi insegnavano il mestiere – quando si parla di teatro bisogna parlare di maestranze), svolgevo come minimo sei ore lavorative, dovevo rendere conto dei miei ingressi e uscite dal luogo di lavoro per presentarle all’associazione che tutt’ora sponsorizza il tirocinio per ricevere, alla fine dei sei mesi, l’abilitazione ad esercitare la professione. In cambio di questa abilitazione ho quindi lavorato per tanti mesi ad un costo bassissimo (ndr. il lavoro come fonico è tendenzialmente retribuito molto meglio di così): il contratto di tirocinio professionalizzante permette all’erogatore del tirocinio di assumere manovalanza, forza lavoro a costo bassissimo, come succede per tutti i tirocini offerti dall’Università ecc… Il concetto è proprio quello di assumere delle persone che hanno già delle capacità nel campo del tirocinio offerto: con il pretesto dell’abilitazione e di una maggiore specializzazione si viene “assunt*” con stipendi bassissimi.

Nel teatro mi sono stati forniti tutti i dispositivi di protezione individuale, così come l’abbigliamento da lavoro: ero però costretta a pagarmi i pasti da sola, ed in un contesto lavorativo che richiedeva di trascorrere quasi interamente la giornata all’interno del teatro ovviamente questo era problematico. Ai tempi, insieme ad un collega, provai a richiedere la possibilità di accedere ai buoni pasto, dato che lavoravamo per un ente comunale, ma per cavilli burocratici non siamo riusciti ad ottenerli, non essendo diretti dipendenti del teatro e dunque diretti dipendenti comunali ma assunti tramite questo progetto realizzato grazie a fondi regionali.
Dopo aver svolto questi sei mesi mi sono specializzata in tecnico audio live e ho fatto questi quattro mesi all’interno del teatro come apprendista tecnico luci, ed al quarto mese, a marzo, hanno sospeso (non interrotto) il tirocinio perché il teatro chiudeva e per questo ho ricevuto come indennizzo l’intero stipendio del mese di marzo e, dopo 8 mesi, altri 450 euro come indennizzo finale per la sospensione di questo tirocinio. Il tirocinio in sé non è stato interrotto ma solamente sospeso, anche per permetterci di concluderlo e ricevere la qualifica, ma ovviamente vista la situazione nazionale di chiusura dei luoghi di cultura, e tra questi i teatri, non è stata ad oggi individuata una data di riapertura di questo percorso.

Il racconto di F. prosegue parlando del contesto lavorativo che ha dovuto scegliere per potersi mantenere dopo la fine del primo lockdown. Il contesto lavorativo che descrive è senz’altro migliore del precedente e di tanti altri. Delle condizioni di lavoro che siano dignitose, che sappiano dare delle garanzie (in un periodo così anche di pochissimi mesi), che sappiano tutelare i lavoratori e le lavoratrici, sono considerate un privilegio, una fortuna. Forse questo dà la misura di quanto la realtà sia lontana dal soddisfare i nostri bisogni e quanto inaccessibili risultino sempre i nostri desideri. 

Sapendo che non avrei avuto uno stipendio per svariati mesi, ho dovuto andare via da Bologna. Non essendo classificata come lavoratrice dello spettacolo perché non avevo un contratto come lavoratrice dello spettacolo ma solo come tirocinante, ho ricevuto dall’INPS solamente due rate da 400 euro come indennizzo per i lavoratori. A questo punto mi sono dovuta guardare intorno, ho dovuto mandare più curricula possibile, a chiunque sapessi che poteva continuare a lavorare durante l’estate (enti turistici, villaggi… che per fortuna ancora cercavano tecnici del suono): nel mese di maggio ho trovato questo lavoro nel Club di una multinazionale francese – finanziata da un’enorme azienda cinese – che ha villaggi in tutto il mondo. Lì offrivano una paga dignitosa, uno stipendio di circa mille euro al mese, per un contratto che inizialmente durava dal 27 di giugno al 27 di agosto: all’inizio di agosto mi hanno comunicato che mi avrebbero rinnovato il contratto ogni due settimane, fino al 6 di novembre. 

Da inizio settembre fino a novembre, non ho avuto un unico contratto ma una lunga serie di rinnovi, ogni due settimane, del contratto originale: questo perché, in caso di chiusura causa Covid, contagi all’interno del villaggio, non avrebbero potuto pagare i lavoratori anche se non stavamo lavorando (come è successo in alcuni stabilimenti invernali durante la prima ondata pandemica, e come sarebbe giusto succedesse in tutti i casi). Alla fine però questo lavoro è andato bene, ci hanno pagato fino alla fine, sempre puntuali, con i giorni festivi pagati il doppio: era una buona condizione lavorativa… sempre tenendo conto, però, che è una condizione lavorativa che investe tutti gli aspetti della tua vita, specialmente l’aspetto della cura. 
Essendo un villaggio turistico, anche noi tecnici eravamo obbligati a mangiare con gli ospiti, a passare l’intera giornata all’interno del contesto lavorativo: le ore di lavoro quindi non erano otto, erano molte di più, la giornata cominciava alle 10 e finiva a mezzanotte. Quindi il sogno di lavorare “solo” otto ore al giorno per fare il mio mestiere, e non più di questo, è andato male. 

A prescindere da tutto questo tanti altri settori lavorativi in quello stesso stabilimento sono molto più sfruttati: per esempio chi lavora al miniclub (che già svolge un lavoro di cura costante, perché si occupa di gestire i bambini) quando il miniclub chiude deve fare “vita di villaggio”, interagire con gli ospiti, dopo otto ore di lavoro non può andare a farsi i fatti suoi ma dal’aperitivo fino all’ora di cena e dopo la cena deve stare con gli ospiti, intrattenere… A questo noi tecnici non eravamo costretti, anche vista la mole di lavoro, aumentata causa Covid perché la routine dei villaggi si svolgeva in modo molto semplice prima (tra mandare musica all’acquagym la mattina e all’aperitivo musicale il pomeriggio, per poi arrivare allo spettacolo e ai balli di gruppo), mentre,  non potendo più creare assembramenti con un unico evento nel corso della serata, dal Covid in poi si svolgono più eventi in contemporanea in luoghi diversi, dunque più installazioni e più smontaggi da fare, dunque più tecnici ed un lavoro più intenso – una volta siamo arrivati a lavorare 17 ore… 
A discolpa di questo sciacallaggio, posso quantomeno dire che ci hanno pagato gli straordinari, cosa che purtroppo non accade praticamente mai: abbiamo avuto la fortuna di avere un responsabile che quando gli presentavamo le ore di straordinari ce le segnava, perciò avevamo degli extra in busta paga. Questo però non succede per tutt*: molti altri settori che lavoravano all’interno del villaggio (come il bar, la cucina…) non si vedevano mai pagate le ore di straordinari.

Mi sono trovata quindi a lavorare per quasi cinque mesi all’interno di questo villaggio, sei giorni su sette con un giorno di riposo nei mesi più intensi (e si parla di 1400 ospiti a settimana nei periodi di alta stagione), mentre nel periodo più tranquillo e di minore affluenza avevamo anche a disposizione altre due mezze giornate… Ho passato questi mesi lì dentro, in un contesto, devo dire, alienante: vivere all’interno di un villaggio l’intera giornata, dalla mattina alla sera, senza uscire mai neanche per andare a casa… È una condizione che porta ad alienarsi completamente dal mondo esterno, vivi in una bolla fatta di gioia musica aperitivi, in cui ovviamente lo scopo principale è la soddisfazione dei clienti, quasi dovendo escludere il mondo esterno – una pandemia globale! – e far passare il soggiorno migliore possibile a chi è lì in vacanza. Io non avevo una macchina, quindi passavo anche il mio giorno libero all’interno del villaggio se non avevo la fortuna di trovare qualcun* con cui avevo fatto amicizia che usciva con la sua macchina e mi portava con sé: in particolare verso la fine è stata molto dura stare lì dentro anche il giorno libero. Non si stacca mai, anche se andavo in spiaggia (in una spiaggia del villaggio rimasta vuota per via del covid e riservata quindi al personale), dovendo pranzare e cenare sempre all’interno del villaggio: non c’era un attimo di vero distacco, in cui vita e lavoro non coincidessero in qualche modo.

In questo contesto qua, per il quale svolgeva a Bologna un lavoro sfruttata e sottopagata, la pandemia ha portato F. a trovare soluzioni alternative, perché chiaramente né dal datore di lavoro, né dallo stato una soluzione reale è arrivata. La città di Bologna (e non solo, in particolare adesso) diventa inaccessibile e invivibile nel momento in cui non si ha abbastanza reddito per poterci stare, nel momento in cui c’è una pandemia globale e anche soltanto poter vivere è un lusso e poter vivere bene è un privilegio. Ogni forma di erogazione di reddito è stata ed è carente, dove non è del tutto nulla. 

Se io avessi avuto un indennizzo statale, come purtroppo solo una piccolissima parte dei lavoratori dello spettacolo ha avuto (600 euro al mese), non sarei stata costretta a lasciare la mia casa a Bologna. Quando mi hanno comunicato che avevano intenzione di rinnovarmi il contratto fino a novembre ho deciso di lasciare la mia casa a Bologna perché non aveva senso guadagnare mille euro al mese e spenderne 350 per una stanza di cui non usufruivo. Per questo mi è convenuto risparmiare quei soldi per metterli da parte, lasciando la mia casa là. Se ci fossero stati dei sussidi, anche semplicemente di reddito indiretto come un blocco del pagamento dell’affitto e delle utenze, o quantomeno una riduzione drastica dei canoni, io adesso avrei ancora una casa a Bologna dove poter tornare. Invece sono dovuta tornare a casa di mia madre a Palermo, in attesa che questo Club riapra, perché quella è l’unica azienda all’interno del settore del turismo in cui io possa continuare a lavorare avendo uno stipendio relativamente fisso e assicurato. Questo perché ancora dal Teatro Comunale non si hanno notizie sulla ripresa del lavoro, so che adesso stanno facendo dei concerti in streaming… non si sa nemmeno per quanto tempo rimarranno bloccati ancora. 

Per questo non potevo permettermi di tornare a Bologna, pagando un affitto senza un reddito né diretto né indiretto; ora sono a casa di mia madre e sono riuscita ad avere accesso alla disoccupazione, che avendo lavorato meno di sei mesi è molto bassa (1500 euro in totale). Mi sento di dire fortunatamente, anche se di fortuna ce n’è poca, ho accesso al reddito di cittadinanza, per cui avevo fatto la richiesta quando ancora risiedevo a Bologna, in piena prima ondata pandemica, e che mi era stato accordato. Per questo da agosto ricevo il reddito di cittadinanza, che ovviamente adesso con la disoccupazione si è interrotto ma che riprenderà alla fine dell’erogazione della disoccupazione. Diciamo che riesco a stare a galla, ma se non avessi la fortuna di avere una madre che può ospitarmi e dovessi pagare un affitto e le relative utenze sarei costantemente con l’acqua alla gola. Non ho ricevuto tanti soldi quanti me ne sarebbero serviti per poter continuare a vivere dignitosamente e senza dipendere da mia madre, la mia categoria è stata completamente abbandonata: se non mi fossi rimboccata le maniche sarei stata lasciata indietro, ignorata dai vari decreti perché la mia categoria come lavoratrice dello spettacolo non è molto riconosciuta… Avere un reddito negli ultimi mesi mi è stato possibile proprio perché me ne sono andata, perché ho cercato ovunque per trovare un lavoro, ma se fossi rimasta a Bologna in attesa di risposte dalla regione o dallo stato avrei percepito solamente il reddito di cittadinanza, una cifra piuttosto misera per potersi davvero mantenere (600 euro). Tra l’altro il reddito di cittadinanza funziona che se il primo mese in cui ti vengono erogati i soldi non li spendi tutti, il mese successivo viene detratto il 20 o il 30% nella seconda rata: io quindi il primo mese, abitando dentro un villaggio, non avevo molte spese (vitto e alloggio pagati) e quindi mi sono vista costretta a comprare anche cose che non mi servivano per non perdere parte della seconda rata. Non essendoci riuscita a settembre ho avuto circa 200 euro in meno… Per concludere, se fossi rimasta a Bologna avrei percepito solo il reddito di cittadinanza e i 450 euro di indennizzo dalla regione Emilia Romagna che, per arrivare, hanno impiegato comunque 9 mesi (per burocrazia, controlli incrociati sulle presenze ecc).

Bologna è inaccessibile se non hai uno stipendio, penso che nemmeno con il reddito di cittadinanza sarebbe possibile vivere dignitosamente, potendo prelevare solo duecento euro al mese con i quali pagare le bollette, effettuando un bonifico per l’affitto, facendo la spesa: le esigenze di un essere umano non sono e non possono essere solamente avere una casa, mangiare e pagare le bollette. Questo è il minimo indispensabile per una vita dignitosa. Tutto il resto non può essere considerato un vezzo, voler vivere bene non può essere visto come un capriccio.

Leggi anche:

Genova, o l’evento imprescindibile

Caro Carlo Nel bel mezzo di un ventennale in cui da tutte le parti ci si sporca la bocca sproloquiando, reinterpretando, e dissociandosi, noi continuiamo a raccogliere da terra quell'estintore. Cospirando, combattendo e sognando.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi