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STIVALI MOSSI DA RABBIA, STIVALI MOSSI D’AMORE

Riflessioni per una solidarietà sovversiva e costituente

L’attuale presente di crisi alluvionale ha prodotto, in maniera diversificata seppur continuativa in tutta la regione, un enorme impeto alla solidarietà. Dalle città ai paesi, dalle scuole ai luoghi di lavoro, dalle università ai circoli, alle organizzazioni sportive, addirittura ai bar, un variegato spezzone sociale dal 17 di maggio stesso si è messo in marcia: chi per portare beni di prima necessità, chi per ricostruire laddove erano rimaste – e persistono – solo macerie.

Da Bologna, ad esempio, ogni giorno centinaia e centinaia di persone equipaggiate di stivali e badili partono verso territori tuttora in ginocchio, sommersi dal fango, umiliati nell’animo.

E per fortuna che questo mondo che ci anestetizza, che naturalizza qualsiasi tragedia, sia stato sconfessato da una vera dimostrazione di solidarietà di massa – e nella maggior parte dei casi, di classe – affermandosi subito come unico aiuto concreto in mezzo ad un’alluvione di retoriche inconcludenti.

Infatti, mentre il governo continua a stanziare fondi per il finanziamento della guerra in Ucraina (circa 1,05 miliardi dall’inizio) o continua ad arruolare e far esercitare truppe in attesa dell’invio al fronte, nei territori della bassa romagnola ancora non si vede l’ombra di un centesimo e le sparute forze statali portate sul campo appaiono a fine giornata molto più pulite di chi si organizza collettivamente.

Ma tutto questo fermento dal basso, seppur necessario, così non basta. Non basta esserci noi, se loro possono continuare a seminare guerra, estrattivismo e miseria indisturbatamente, senza porsi il minimo problema di doverne poi rendere conto a qualcuno.

Non basta esserci noi, se loro possono indirizzare i fondi per la ricostruzione in maniera del tutto arbitraria, se l’obiettivo di tale ricostruzione non sono le vite e le case, ma il sistema mortifero che è stato causa del disastro.

Per ironia della sorte non è utile esserci noi, se questo può essere usato da loro come possibilità di deresponsabilizzazione, scaricando verso il basso un lavoro sociale di portata gigantesca.

No volveremos a la normalidad, porque la normalidad era el problema”.

Tre anni fa, alle porte di quella pandemia che fino ad oggi è stata percepita globalmente come La crisi, lo spartiacque del nostro tempo, sui muri del Cile in rivolta compariva un messaggio di tale portata, una sfida ambiziosa con le idee chiare rispetto al passato e gli occhi puntati verso il futuro.

Sono tanto tristi quanto lampanti le somiglianze che questa ennesima emergenza abbia con il contesto prodottosi dopo l’emersione del Covid-19: la percezione del disastro rimasto impensabile per i più fino ad un istante prima, il proliferare di una narrazione mediatica fatalista e antistorica rispetto alle cause, il mito riemerso del “siamo tutti sulla stessa barca”, l’idealizzazione di un passato accogliente e di un’età dell’oro a cui tornare immediatamente, da cui attingere un modello, da cui trarre speranze e conforto. Oggi come allora, nulla di più deleterio.

E’ necessario riconoscere la natura sindemica delle crisi in che viviamo – dal Covid, ai disastri ambientali, al carovita, alla guerra – e saperne rintracciare le cause e i responsabili. Ovviamente, procedendo con uno sguardo olistico e complessivo in questa ricerca, per eventi del genere è impensabile trovare nitide le “impronte” del singolo colpevole sulla scena del misfatto, soprattutto se l’appropriatezza di tale sguardo risiede nel partire da un presupposto chiaro: il problema è sistemico, è il frutto di una compartecipazione di attori piccoli e grandi, di cause piccole e grandi.

L’uragano capitalista è, per l’appunto, una turbolenza impersonale, una reazione di causa ed effetto su larga scala che quando si radicalizza – ovvero si erge a crisi, a evento eccezionale – esce sempre dal raggio di potenza e di giurisdizione del singolo “azionista/responsabile”, per quanto grosso e influente quest’ultimo possa essere. Un effetto domino che una volta innescato scivola via dalle mani umane e ridisegna gli equilibri, anche e soprattutto nella controparte. Ma è bene ricordarsi che da mani umane, da scelte concrete, da politiche mortifere portate avanti giorno dopo giorno, viene sempre prodotto per poi roteare libero, incontrollato, incontrollabile.

Torniamo però al Covid e alle FFP2. Anche in quel panorama di tremenda fragilità avevamo riscontrato, dalla Sicilia al Trentino, lo svilupparsi di una sorprendete ondata solidale: brigate autorganizzate che si diramavano di quartiere in quartiere, che organizzavano la raccolta e la distribuzione di beni di prima necessità, che si ponevano il problema concreto ed immediato della sopravvivenza collettiva di fronte ad un presente di morte e ad uno Stato esplicitamente contrario a promuovere qualsiasi forma di aiuto che non fossero briciole.

Tutto giusto, urgente e indispensabile, ma cosa ne è rimasto poi? Che cambiamento ha prodotto nella società, all’interno dei rapporti di forza, il mutualismo senza essere accompagnato da una prospettiva politica più ampia? Quanto è riuscita questa abnegazione volontaristica a mettere alle strette un governo (nella pratica, due) che ci ha condannato per anni alla miseria, alla malattia, alla morte?

La pandemia ha dimostrato tante cose, enfatizzandole nella loro essenzialità. Da un lato – come mai prima nelle nostre memorie – ha sprigionato la forza, l’energia della solidarietà attiva diventata motore sociale, attivazione massificante. Dall’altro, ha messo in luce la precarietà di questo moto se basato esclusivamente sull’emergenza e sul suo tempo attorcigliato nelle 24 ore. Ha messo in luce quanto per la macchina sistemica possa essere addirittura comodo avere degli angeli del Covid o angeli del fango su cui scaricare il peso materiale delle crisi, e dalla cui cooperazione riuscire anche ad estrarre del valore.

(Murales in via Zamboni)

Alla luce di tutto, viene da chiedersi: è pensabile, è realizzabile una solidarietà che sia sovversiva rispetto allo stato sindemico di contraddizioni del mondo? Una solidarietà che sia base per e che sia costituente di un mondo radicalmente nuovo?

Questi i quesiti che pensiamo oggi debbano essere indagati in mezzo al fango, uno stivale dopo l’altro, tenendo sempre a mente che la normalidad era el problema, che non esiste alcun passato mitico a cui tornare, che il domino di miseria e distruzione è sempre azionato da dita umane e che queste ultime devono pagare un prezzo politico anche se non sono state loro a far cadere materialmente l’ultimo tassello nell’innesco dell’emergenza.

La crisi non può battere solamente al tempo dei padroni: è – e deve essere -anche il tempo del riscatto, del “ora basta”, una nostra cesura dal presente di sfruttamento, verso la conquista di un futuro innestato nei nostri desideri.

Stivali mossi da rabbia e amore all’unisono, restituendo il fango delle nostre vite ai mittenti. Alla ricerca di una via in sù della solidarietà che destituisce ciò che è, e una via in giù della solidarietà che costituisce ciò che può essere, ciò che deve essere. Per la pretesa di un moto trasformativo costituito da un doppio potere che, distruggendo e ricreando diversamente, ponga le basi affinché la solidarietà non sia più lasciata al volontarismo individuale ma diventi reale, totale, rivoluzionaria in un mondo nuovo all’insegna dell’abbondanza.

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