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Genova, o l’evento imprescindibile

La reale potenza di un evento, di un frammento, di un fatto, probabilmente va ricercata a posteriori dall’istante stesso, una volta che l’episodio si è compiuto rendendo quindi “il fatto” in questione quello che già sarebbe evidente in analisi grammaticale: un participio passato.

Con questa premessa ci accingiamo a scrivere non tanto un trattato storico sulle densissime giornate di quel luglio o un bilancio politico sulla mobilitazione No G8 2001, ma siamo desiderose di restituire ciò che per tanti e tante “ventenni di vent’anni dopo” vuole ancora dire la sineddoche di Genova.
Siamo la generazione nata a cavallo del Duemila, che per motivazioni prettamente biologiche non era presente in quelle piazze e che quindi non possiede ricordi propri di quel ribollente fuoco nei vicoli del capoluogo ligure. Al contrario di chi visse quei giorni, non bastano poche parole per accendere di default una pellicola raccolta man mano durante il tragitto dei cortei, portata a casa con gran cura e ora custodita gelosamente in fondo al cuore.
Eppure anche per noi quello stesso fuoco si sostanzia come uno spartiacque esistenziale, qui nel presente. Gli assedi, i caroselli, la zona rossa, i sampietrini, la Diaz, Bolzaneto, Carlo, la rabbia, l’odio. Immagini, solo immagini sparse. Ma irrequiete e non statiche, che sanno parlare a chi vuole ascoltare, che sanno bruciare su chi può sentirle vive anche a vent’anni di distanza. Forse è proprio questo il dato che fa di Genova un evento epocale fuori dal suo tempo: essersi costituita come participio passato e non passato remoto, e quindi essere riuscita a diventare il sostantivarsi di un verbo, l’immagine in movimento di un fatto, aver saputo trovare la propria attualità e dinamicità anche in un mondo così diverso da allora. Ed è per questo che la ritroviamo negli occhi delle nostre compagne e dei nostri compagni di percorso, limpido segno di intesa che definisce un percorso di lotta comune.

Ciò che non avremmo voluto e dovuto ereditare ma che ci è crollato addosso con tutta la pesantezza di quel torrido luglio è stata la normalizzazione di una spaccatura, prima tra chi in quei giorni era insieme a manifestare e poi negli anni successivi, in ogni momento di lotta, tra chi è manifestante modello, pacifico, rispettoso e chi invece indisposto al dialogo, figlio di papà dei centri sociali, facinoroso, violento, black bloc. Avallare una narrazione che non è nostra ma della controparte, rendendola pane quotidiano di chiunque. Il post G8 ha voluto fornire le nostre anime su questa divisone.
Ci hanno così insegnato che c’è un modo consono di praticare la lotta, che certamente si può e anzi si deve esprimere la propria opinione critica, ma con le modalità che le norme istituzionali ci forniscono, che chiunque decida di violare quelle norme autodeterminandosi non ha idea di che cosa stia facendo, che ad un sistema violento, predatore, affamatore si risponde (quando proprio necessario eh!) a modino, altrimenti non si otterrà mai nulla. Ci hanno così tolto, o quantomeno da allora ci provano con maestria, la gioia di sapersi parte di una stessa porzione di mondo con chi cammina al nostro fianco in corteo — o con chi vorrebbe farlo ma si sente minacciato o peggio ‘associabile’ alla pratica violenta della lotta — rendendo sempre di più reale una solitudine che si vuole sostituire alla moltitudine multiforme cui aspiriamo. Se quel modo lì di guardare a Genova non ha poi smesso di accompagnarci è per noi di vitale importanza stare fuori da questa logica che ci vuole fare guardare persino alla morte di Carlo dalla prospettiva di un defender che vede un’estintore e non di quella degli occhi di un ventenne che sogna un mondo diverso. Il mondo che in quei giorni a Genova si immaginava, in contrapposizione al modello dei meeting e della rappresentanza guidata dalla sete di profitto, era fatto di dignità, di relazioni differenti, di libertà.

E oggi non si può fare altro che avere la certezza che avevamo ragione noi. Un noi che non dovrà mai più essere spezzato ma che, anche dopo vent’anni ha il compito di ricucire, ricostruire e attaccare. L’anno e mezzo appena trascorso, la sindemia in cui siamo immerse ci hanno dato una tragica conferma: il modello economico di sviluppo in cui la globalizzazione delle merci e delle informazioni si spaccia come unico modo di vivere e abitare il pianeta, non era sostenibile già allora, figuriamoci adesso. Un presente che costantemente ci porta alla mente Genova 2001 e ciò che in quelle giornate ci animava. Se della consapevolezza di avere ragione ce ne si fa ben poco la spinta di quella contrapposizione al modello dei grandi meeting ci deve fare da lanterna nel buio in cui si brancola in un momento come quello che stiamo vivendo tuttora. Un momento in cui tutte le contraddizioni del sistema economico ci si sono scagliate addosso con il peso di una montagna, dimostrandoci l’impossibilità della vita su una terra così martoriata. Un virus che, grazie alla loro globalizzazione ha messo in ginocchio l’intero pianeta evidenziando e inasprendo tutte le diseguaglianze che già prima della sindemia dividevano il globo in sfruttate e sfruttatori, sta diventando la nostra nuova normalità. Ma pensare a Genova oggi deve guidarci nella volontà di tradire questa normalità che non ci appartiene, pensare a Genova vuol dire fare passi in avanti, riflettere sui limiti di quelle giornate e di quegli anni per costruire e immaginare il mondo nuovo, con la responsabilità di rendere la ragione che avevamo nel 2001 una realtà trasformativa del presente, perché se ieri un altro mondo era possibile oggi è necessario.

Caro Carlo
Nel bel mezzo di un ventennale in cui da tutte le parti ci si sporca la bocca sproloquiando, reinterpretando, e dissociandosi, noi continuiamo a raccogliere da terra quell’estintore. Cospirando, combattendo e sognando.

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