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Tenendo il punto, un anno dopo.

E’ ormai trascorso un anno da quando, nella culla del poi tanto disprezzato 2020, iniziò a farsi spazio con prepotenza il termine che di lì a poco avrebbe condizionato egemonicamente le nostre vite, almeno fino ad oggi. Una definizione che per molti prima di allora era relegata alla più totale astrattezza semantica, costituendo o il sottoparagrafo di qualche capitolo nel manuale di storia del liceo, o un pericolo avvertito come estraneo e distante dalla narrazione post-coloniale dei media europei, o il possibile impianto scenico per un racconto distopico firmato Philip Dick.
Ma la frenetica successione degli eventi di gennaio/febbraio ha reso “pandemia” la parola-chiave per decifrare qualsiasi frammento di questo presente.

Ripensare alla realtà pre-Covid provoca un retrogusto estraneo ed estraniante. Siamo stat spettator – più o meno consapevol e più o meno attiv – di un intero mondo che dall’alto della sue stesse pretese di imperturbabilità, in una manciata di settimane ha assunto fattezze irrimediabilmente distanti da quelle precedenti, riuscendo a costruirsi uno status quo all’interno del contesto pandemico e ponendo le basi per una nuova quotidianità da svelar(ci) una volta fuori dall’emergenza.
La percezione di tale cambiamento appare senza dubbio discontinua: da un lato il tempo trascorso in questa altalenante quarantena si raffigura come un eterno logorio, dall’altro la vuotezza delle tante giornate vissute all’insegna della solitudine rende queste ultime sovrapponibili in un unico e confuso ricordo. Un infinito appiattito in un secondo, si potrebbe dire osservando quanto risulti dilatata l’elasticità del presente storico, che ci descrive le ventiquattro ore giornaliere infinitamente più interminabili rispetto alla sfuggevole indistinguibilità dei trenta giorni mensili.
“Il tempo è la forma con cui noi esseri, il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione, interagiamo con il mondo” scrive Carlo Rovelli, ed è per questo che ad un anno dal drammatico inizio della realtà per come ci appare tutt’ora bisogna portare avanti una riflessione proprio a partire dal tempo.

La crisi sanitaria, sociale ed economica costituita dal Covid-19 va collocata in un rapporto endogeno col vortice capitalista da cui è stata prodotta, in cui si è sviluppata e su cui ha apportato – e sta apportando – radicali cambiamenti ed accelerazioni. Intenderla come qualcosa di esterno al sistema costituirebbe un punto di partenza altamente fuorviante, conferendo al virus una sorta di origine trascendentale e negandone le dinamiche di causa-effetto presenti nel mondo antecedente ad esso.
Per chiarezza complessiva, infatti, il termine esatto sarebbe sindemia: una messa in risalto delle interazione tra le patologie e i fattori sociali, ambientali o economici che peggiorano l’impatto della malattia e ne accentuano il contagio (come spiegava bene The Lancet già nel 2017 https://www.thelancet.com/series/syndemics).
Smantellamento della sanità pubblica, devastazione ambientale, immobili vuoti lasciati al disuso, case fatiscenti con affitti alle stelle, mezzi pubblici insufficienti, razzializzazione dei diritti, impianto patriarcale del sistema, turni di lavoro disumani, prestazioni lavorative senza alcuna garanzia, assenza di qualsiasi forma di welfare. Eccoli i sintomi sociali che da più di vent’anni ci palesano lo stato terminale in cui riversa la salute del mondo a noi circostante, sintomi che hanno creato un terreno florido per la diffusione del virus. Il Covid si sostanzia in tutto e per tutto come la goccia, una devastante goccia, che infine è giunta sul vaso stracolmo di speculazione delle nostre vite e lo ha fatto traboccare, lasciandoci in pasto a un fiume di ipocrisia che oggi non è più possibile ignorare.

Quando ci siamo trovat a dover fare i conti per la prima volta con la quarantena, nuova condizione esistenziale che ha scandito in questi mesi la percezione del tempo, era già in atto una completa riforma dei meccanismi di potere.
I recenti cambiamenti del mondo della formazione ci offrono un’ottima base di studio per analizzare le fondamenta della “Nuova Quotidianità” che sembrerebbe essere in cantiere, attendendo la fine dell’emergenza per potersi disvelare del tutto. Da marzo l’intero sistema universitario è stato radicalmente mutato dall’introduzione della Didattica a Distanza, misura certamente dettata dalle necessità emergenziali di questo periodo storico ma che, al con tempo, pone la sue prospettive di durata fuori da qualsiasi contingenza: telecamere 360° e con ottima risoluzione, microfoni ambientali, potenziamento della velocità di rete, sono le innovazioni apportate nelle aule da ogni ateneo d’Italia. Alla luce delle ingenti somme di denaro investite, appare immediato quanto un soluzione di questa portata si preannunci come duratura.
Di dematerializzazione della didattica si parla già da anni, un esempio è stata l’introduzione del registro elettronico nelle scuole, ma l’imprevedibile contesto di distanziamento fisico prodotto dal virus ne ha costituito un’accelerazione senza precedenti.

Al di là dei tentativi di demonizzazione a priori della DaD, lungi dal voler portare avanti un’esaltazione del passato – quel passato che, come abbiamo detto, costituisce la genesi della realtà attuale -, si pone necessaria una critica che entri nel merito di questa effettiva riforma del mondo universitario, passata sotto tacita approvazione.
Nei mesi appena trascorsi, infatti, non ci si è curati minimamente di mettere la comunità studentesca nelle condizioni materiali per riuscire ad essere al passo con il sostanziale stravolgimento del sistema formativo. Mentre fiumi di denaro venivano spesi per rimodernare la fisionomia dell’università 2.0, non un fondo è stato erogato per consentirci di acquistare i mezzi resi necessari da questo aggiornamento: pc, webcam, router wi-fi. Eppure l’amministrazione universitaria non ha mai smesso di pretendere il pagamento delle esorbitanti tasse annuali, quando da un lato non ci venivano garantiti i servizi tecnologici, dando per scontato che ognun di noi possedesse già tali supporti, e dall’altro non si vedeva l’ombra di quelli fisici come le biblioteche, giustificando questa assenza col grande alibi contemporaneo della salute. O meglio, della sua strumentalizzazione per legittimare la chiusura di quei pochi spazi che prima erano presenti, senza né creare le condizioni per farli attraversare autotutelandosi, né aprendone di nuovi e più grandi in cui poter diluire la comunità studentesca.

Un dibattito sulla salute oggi è più che necessario, sia per strappare l’altezza di questo termine alla becera narrazione mediatica che di giorno in giorno lo corrompe e lo tradisce, sia per riuscire a concepirlo con una nuova significazione che vada oltre il benessere esclusivamente fisico.
Senza dubbio, la pretesa di un sistema sanitario accessibile e gratuito si configura come un orizzonte di lotta legittimo e da portare avanti con forza. Nel suo dramma il Covid ci ha proprio dimostrato quanto sia profondamente falso il mito del “siamo tutt sulla stessa barca”, accentuando le asimmetrie sociali e facendo emergere quanto la possibilità di supporto medico sia legata alla quantità di reddito disponibile per questo, vero e proprio, investimento individuale. Giusta la pretesa di tamponi gratuiti, giusta la pretesa di mascherine gratuite, ma salute non può limitarsi a questo.
Bisogna uscire dalla medicalizzazione stretta del termine e iniziare ad usarlo come irrinunciabile lente di lettura per l’analisi complessiva della realtà. Abbiamo vissuto mesi profondamente insalubri, mesi di improvvisa e irrimediabile cesura delle nostre vite senza alcun tipo di supporto psicologico messo a disposizione per tutt, mesi di estrema povertà senza che venissero prese misure sul reddito più concrete rispetto a quelle quattro briciole avvelenate costituite dai ristori, mesi in cui siamo stat costrett a vivere reclus in vere e proprie topaie mentre chi sguazzava nel lusso più sfrenato ci veniva a fare la morale su quanto #restareincasa fosse semplice.
Ecco allora che, con un tonfo sordo, si cede al terreno lo scabroso velo di Maya messo a celare il genuino significato di salute, che è pretesa di una vita dignitosa e in maniera incondizionata rispetto a qualsiasi fattore individuale, sociale o economico. Salute dialoga con reddito, perché solo quando terminerà l’incombenza della fine del mese vivremo un’esistenza realmente piena. Salute dialoga con lusso, perché solo una volta che avremo abbattuto i suoi connotati elitari lo si potrà estendere e rendere accessibile.

Ritornando quindi al mondo universitario, non si può proprio affermare che la salvaguardia della nostra salute sia stato l’orizzonte seguito dalle scelte delle varie amministrazioni. In un periodo di complessiva crisi dell’esistente, senza alcuno scrupolo è stato perpetuato il ricatto dei CFU sulle possibilità di vita di studentesse e studenti. Ci è stato sobbarcato un carico di stress e scadenze, che se già prima era angosciosamente difficile da rispettare, nel presente pandemico si è reso impraticabile.
Il CFU è il motore immobile, astratto, che si arroga il potere di condizionare radicalmente le nostre esistenze. Lo si può quasi intendere come una divinità del sistema universitario tutto, e in quanto divinità pretende l’adempimento incondizionato dei propri voleri o la cessione di tributi materiali da parte dei propri adepti. Tanto se si è borsist, con dei crediti da conseguire per continuare ad accedere all’erogazione dei fondi annuali, quanto se si pagano le tasse, con dei crediti da conseguire per non incombere in salatissimi fuoricorso, il CFU è il nostro totem di riferimento. E come in ogni religione, viene imposta la dogmatica valenza di testi scelti in maniera del tutto arbitraria. Infatti, l’assegnazione delle borse di studio e l’esenzione (totale o parziale che sia) dalle tasse, sono entrambe regolamentate dall’ISEE: il calcolo del reddito appartenente al proprio nucleo familiare non di uno, bensì di due anni prima rispetto alla richiesta da presentare.
E’ stata affrontata ironicamente, forse perché è un ferita troppo viva per poter essere analizzata con distacco, ma il dato emerge con lapidaria chiarezza: non siamo di fronte ad un’università accessibile.

Pretendiamo l’abbattimento di tutte le barriere disposte a delimitazione del mondo universitario, in ottica di una sua definitiva gratuità. Ogni misura momentanea, ogni rivendicazione parziale, si dimostra inconcludente proprio perché non riesce ad entrare nel merito del problema in quanto tale, soffermandosi ad analizzarne solo una parte.
Pretendiamo che la scelta tra seguire le lezioni online e seguirle in presenza non sia imposta in maniera coercitiva, dettata dalle nostre possibilità individuali di sussistenza in quanto fuorisede.
Pretendiamo quindi il superamento complessivo delle tasse che ci rendono quotidianamente dei soggetti precari, costringendoci all’impossibile sia per riuscire a pagarle che per evitare il fuoricorso.
Pretendiamo quindi salute perché è il minimo comune multiplo di ogni sfaccettatura della realtà provata ad analizzare in questo testo, dalla vita in spazi dignitosi alla gratuità di questi ultimi, dall’accessibilità di un tampone alla distruzione delle malsane logiche meritocratiche.
Le nostre rivendicazioni, dato che abbiamo ampiamente discusso dell’importanza del tempo, pongono di sicuro la loro genesi in questo preciso momento storico ma non si dissolvono con esso, partono dall’emergenza per arrivare alla critica della nuova e futura quotidianità che ci attende.

Volenti o nolenti, la realtà pre-Covid è irrimediabilmente persa e – ci si può permettere di dire ripercorrendo le sue agghiaccianti contraddizioni – per fortuna!
Oggi, un oggi che pone però la sua origine in un istante appena trascorso, si gioca la partita sul piano della risignificazione, dalla salute al reddito, dal mondo all’università. Ed è in questo solco che le nostre lotte e rivendicazioni vanno collocate. Una prospettiva di ampio respiro che eluda l’inconsistenza retromaniaca e che al contempo sappia delineare questo “nuovo” innestandolo sul ramo che congiunge i nostri bisogni ai nostri desideri.
C’è tanto da fare!

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