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Tra negazionismo climatico e capitalismo verde.

Restituzione dell’incontro tra il laboratorio “Until the revolution”, Salvo Torre e Alice Dal Gobbo.

Tra gli incendi che hanno devastato l’Amazzonia durante il corso dell’estate scorsa, tra chi tenta di oscurare il fatto che siano frutto di precise decisioni politiche ed economiche e chi invece simillanta della propria “volontà di salvare uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta”, mentre difende decine di multinazionali responsabili di simili disastri in altre parti del mondo, il profilo della situazione attuale si delinea e ci offre un quadro tanto preoccupante quanto chiaro dellacrisi ecologica e politica che stiamo attraversando, tra negazionismi e green capitalism. Le domande da cui partiamo sono piene di sfaccettature e le abbiamo approcciate da diversi punti di vista: se la questione ambientale non può essere circoscritta a dei confini ma è estesa al globo nella sua totalità, in questo conflitto tra “natura” sfruttata e sistema di accumulazione, quale è il reale ruolo degliStati, contrapposto invece a quello delle grandi industrie e del capitalismo più in generale? Tutto questo come si può relazionare con le lotte che possiamo mettere in campo?

Salvo Torre, professore all’Università degli studi di Catania, per dare delle risposte a questi quesiti, per nulla semplici, parte da un’altra domanda, ossia cosa sia questo sistema politico in cui viviamo, analizzandolo da un punto di vista poco ortodosso come una serie di rapporti che inizia dall’ intersezione di diversi fattori: l’esperienza coloniale, il processo di accumulazione realizzzato sui corpi delle donne, quindi la caccia alle streghe, la nascita, in Italia, dei sistemi finanziari e così via. In quest’ottica, una contraddizione che è costitutiva del sistema è quella tra capitale e vivente, in cui il capitale, come somma di relazioni tende ad appropriarsi del vivente e a trasformarlo in valore. Tale processo riesce a sintetizzare
l’ossatura del sistema stesso. Tuttavia la crisi proprio di questo processo è evidente. Crisi che il capitale è riuscito a rendere strutturale ed eterna. Infatti, nonostante tutto, il sistema continua ad utilizzare gli stessi schemi e a reinventare e delocalizzare crisi continuamente.
Ciò avviene in un sistema che, appunto, continua ad immaginare se stesso
come eterno. E il conflitto che si è creato oggi è proprio quello tra le due tendenze sopracitate, quella del negazionismo e quella del capitalismo verde. Entrambi gli scenari, tuttavia, prevedono l’idea di ricorso allo stesso identico sistema, ad una nuova grande ondata di accumulazione. Ondata che si sta già realizzando con le stesse identiche modalità di decenni e decenni fa: sui corpi delle donne, sui corpi dei migranti, sui corpi di chi rimane a vivere nelle aree di sfruttamento, sull’estrazione di valore dalla sfera del vivente.
Si parla di vivente in quanto ci si riferisce ad un qualcosa di più ampio della biosfera. Il vivente comprende la materialità del vivente: noi, la nostra capacità di produrre pensiero, quindi anche il pensiero stesso. Il processo di appropriazione del vivente contempla anche l’appropriazione delle informazioni, trasformando cose che esistono ‘come pensiero’ in qualcosa di utilizzabile e trasferibile: Facebook fa questo.
Trasformare in valore il pensiero della nostra vita quotidiana e riuscire a rendere la nostra vita qualcosa che si muove all’interno della produzione è stato uno dei punti più raffinati del capitalismo moderno. È questa una lettura tipica dell’ecologia politica, che sostiene che tutti questi passaggi debbano essere tenuti in conto nella nostra riflessione più ampia.
Ricollegandosi alla domanda iniziale, dobbiamo aver chiaro che lo Stato nazione è morto. Non esiste più. Ciò è uno degli elementi che sancisce la fine della modernità. Quella tra capitalismo e democrazia è una delle contraddizioni costitutive della modernità. Le democrazie del novecento avevano bisogno del consenso, che serviva a mantenere e giustificare l’intero funzionamento del sistema. Quarant’anni di neoliberalismo compiuto dimostrano che non si ha più bisogno dello Stato, che non svolge altro che una funzione di repressione e gestione. Il capitalismo può tranquillamente prosperare senza lo Stato. Era lo Stato che non poteva prosperare senza capitalismo.
Se quella sfera non c’è più, o ci si batte per re-istituire lo Stato, oppure per fare qualche altra cosa che non sia occupare lo spazio politico dello Stato. È vero però che molte esperienze politiche recenti europee hanno dimostrato che arrivare con una maggioranza in parlamento non ha più molto significato. Un po’ per la dittatura del debito e un po’ perché la capacità materiale d’azione all’interno di quello spazio non c’è più. Quando Bolsonaro è arrivato al governo, tutti sapevano che avrebbe fatto due azioni e che finora è ciò che ha condotto, ovvero una guerra contro tutte le forme di organizzazione politica nella sfera amazzonica e il rilancio del programma di estrazione delle risorse interne.
Come Trump agisce non come un capo di Stato, ma come un esponente di un’area di investimenti e di imprese che ha interesse specifico e che ha la possibilità di usufruire fino alle estreme conseguenze di un apparato statale paramilitare per garantire questi tipi di processo.
Lo spazio politico nuovo dove si realizza una difesa a tutto ciò, lo stanno creando, come sempre, i movimenti che sono in conflitto. Non esiste un processo in cui la struttura di potere dominante crea lo spazio politico, questo si crea quando un gruppo in contraddizione con esso riesce a portare le rivendicazioni da un’altra parte. La grande novità è che noi stiamo dialogando da ormai un ventennio buono dentro uno spazio che è
ancora in formazione e che non è ancora compiuto, ma che non c’entra più niente con quello dello Stato nazione.

Alice Dal Gobbo, ricercatrice presso L’Università di Trento, condividendo le riflessioni di Salvo Torre, analizza entrambe le tendenze, quella al negazionismo e quella alla costruzione di un green capitalism come due estremi tentativi di creare profitto anche da questa crisi ecologica.
È evidente che siamo arrivati ad un punto in cui la crisi sta diventando eterna. Si è sussunto talmente tanto mondo, lo si è eroso sempre di più, che diventa sempre più difficile produrre profitto. Ecco perché le dinamiche che sottendono a questo processo sono sempre più violente. Quando si parla di incendi in Amazzonia, che sono l’espressione di un carattere sempre più violentemente estrattivo di questo sistema, ci si palesano i tentativi estremi di abbracciare degli spazi geografici di mondo che possano rilanciare i processi di accumulazione. In questi ennesimi tentativi di creare guadagni possiamo leggere la capacità del capitale di accettare continuamente la sfida, di deterritorializzare, di cambiare e nel cambiare vivere della crisi, usandola come ulteriore trampolino di lancio.
Con chi fa esperienze di lotta o all’interno dei dibattiti di Fridays For Future, c’è sempre l’urgenza di riflettere su questo, ossia sulla capacità che ha il capitale di appropriarsi di un discorso che sembrava rivoluzionario un momento prima e che poi diventa qualcos’altro in quello stesso momento, diventa qualcosa da dare in pasto a quella bestia che poi lo risputa rendendolo irriconoscibile. Il risorgere di figure come Bolsonaro, Trump o Salvini è da leggere come un sintomo di qualcosa che all’interno di questa deterritorializzazione più spinta del capitale non si può eliminare. Cioè quell’individuo proprietario, il maschio bianco, europeo, colonizzatore che esce dai propri confini (e non solo: lo fa anche nelle mura domestiche appropriandosi del corpo delle donne, del lavoro riproduttivo) e si appropria del territorio. Questo soggetto, perché il sistema stia in piedi, non può morire, non può diventare liquido, altrimenti il capitalismo non esisterebbe. Il soggetto dell’appropriazione non può sciogliersi.
Prima si parlava del conflitto che esiste tra il processo di appropriazione costante e sempre più allargato e intensivo, anche nella sfera della riproduzione sociale, del nostro pensiero. Nell’astrarre il mondo rispetto alle proprie qualità concrete, le qualità concrete del mondo sono state dimenticate, perché si è dato per scontato che fosse possibile, attraverso l’intervento manipolatorio della ragione, della tecnologia e della scienza, ridurre tutto il mondo a questa grande fabbrica di valori di scambio. Questo processo ha funzionato fino ad un certo punto, perché poi la crisi si è espressa: nel cambiamento climatico, ma anche nelle nostre società, con le malattie mentali e i disturbi psichici, nonostante si ritenga che le nostre vite siano “privilegiate”.
Questi nodi ci fanno pensare che ci sia qualcosa che non funziona e possono essere letti come l’espressione dell’impossibilità che il mondo diventi un’astratta quantità da scambiare sul mercato. Ciò perché di fondo la vita è creativa di per sé, oltre che concreta ed è quindi impossibile da imbrigliare in uno schema rigido, come può essere quello dell’astrazione del mondo nel suo complesso.
Lo Stato incarna uno schema coloniale rigido e capitalista che non sembra promettere la possibilità di portare una profonda trasformazione da un punto di vista socio-ecologico all’interno delle nostre relazioni. Allo stesso tempo diventa paradossale, e forse neanche troppo, la reiterazione del fatto che esistono dei territori non sacrificabili e dei territori sacrificabili. Le lotte ecologiste e femministe insieme si stanno configurando come il momento in cui il vivente eccede rispetto a quegli schemi che gli si vogliono imporre e sono espressione di questa eccedenza.
La scelta della parola “vivente” e non di “natura” non è casuale proprio perché si sottolinea questo carattere dinamico, produttivo ed irriducibile, perché da un certo punto di vista quando parliamo del capitalismo come regime ecologico, è facile pensare che il capitale abbia reso il mondo uno spazio a sua immagine e somiglianza. Se parliamo di vita o di vivente si può pensare, invece, che ci sia qualcosa che sfugge a questa maglia.
Rispetto alle potenzialità di un’alleanza tra il pensiero femminista e quello ecologico anticapitalista: più che un’alleanza conta il fatto che in realtà ammontino ad una stessa lotta. Il modo in cui la donna si è dovuta relazionare col mondo è stato un modo di cura: che ha a che vedere con la corporeità, con l’attenzione all’ambiente prossimo, con la concretezza dei cicli vitali e tutti i modi di relazione con la riproduzione dell’ecosistema.
Sono questi i perni che possono aiutarci a produrre un discorso nuovo rispetto a cosa voglia dire stare al mondo in delle comunità sociali allargate, che coinvolgano sia gli esseri umani che i non umani.

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