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SPACE WARS – La vendetta del Covid

“Ci risiamo!” si potrebbe affermare, guardando in faccia la drammaticità di questi giorni. Quel sogno di ritrovata vita che l’estate aveva introiettato nei nostri cuori, si scopre essere spazzato via da un novembre ormai in arrivo, che con durezza ci costringe all’urgenza di riaprire gli occhi.

In questi mesi di vacanza la narrazione istituzionale della pandemia è come se si fosse interrotta, come se la quotidianità dei nostri gesti si stesse apprestando a ritornare al punto in cui l’avevamo lasciata nel bel mezzo dell’inverno, come se – per assurdo – anche il Covid-19 avesse deciso di prendersi delle ferie dal tormento straziante delle nostre esistenze. Con la rimozione sociale di questo fardello, abbiamo potuto riassaporare la sorprendete bellezza e importanza delle relazioni interpersonali, eludendo quell’individualismo insalubre che la quarantena aveva portato con sé.
Ma questa repentina entrata del morbido scenario estivo non la si può certamente attribuire ad una sorta di clemenza da parte del virus, bensì è stata frutto di precisi fini economici. A giugno, sull’altare del turismo, il governo ha deciso politicamente di rendere sacrificabile ogni aspetto della tutela collettiva, ignorando gli studi che già allora prevedevano l’arrivo di una nuova ondata epidemiologica. D’altro canto, il ricatto salute-lavoro aveva raggiunto livelli esorbitanti dato che, finite quelle parzialissime sovvenzioni che erano state erogate durante la prima fase e continuando a non vedersi neanche l’ombra della tanto ostentata cassaintegrazione, ci si era ritrovati costretti e – ironia della sorte – quasi lieti a riprendere una specie di quotidianità occupazionale che, pur in un periodo di mai trascorsa crisi sanitaria, ci permetteva di ottenere dei margini minimi per la nostra sussistenza.

Oggi siamo alle porte di questo secondo e spaventoso tracollo della vita nel suo complesso: il numero dei contagi sul territorio nazionale cresce a dismisura, senza che le infrastrutture sanitarie siano capaci ancora una volta di tenergli testa adeguatamente; tramite il Dpcm emanato ieri dal governo siamo stati catapultati in uno stato di semi-lockdown, dove la giornate sembrano essere scandite secondo il grande trittico del “produci, consuma (ma a casa), crepa”; a fronte di una crisi economica ormai irrimediabilmente in atto, continua ad essere assente dal panorama della politica istituzionale qualsiasi intervento o progettualità per la distribuzione di reddito.
In una riesacerbata crisi del presente, dopo sei lunghi mesi di contesto pandemico, pensiamo possano essere accettabili le pallide giustificazioni del governo sulle ali del “siamo stati colti alla sprovvista”? Di nuovo?

Il discorso del premier Conte di ieri pomeriggio è esemplificativo di quanto le esigenze statali non siano minimamente assimilabili con quelle, reali, della comunità.
Dopo mesi di latitanza dal piano del dibattito pubblico, il grande tema della salute si appresta a compiere il suo ritorno sotto gli accecanti riflettori della strumentalizzazione mediatica, affrontando fin da subito una lotta con l’antica e unica nemesi per lui designata: la socialità. Infatti, stando alla narrazione mainstream di questa pandemia, sembrerebbe che il virus in questione sappia il fatto suo e che quindi decida di non aggirarsi in fabbrica o sugli affollati mezzi di trasporto pubblici, prediligendo invece i luoghi simbolo della movida notturna. “Mica Scemo!” si potrebbe sicuramente esclamare, iniziando quasi a nutrire una pseudo-empatia per questa pigra entità sbevazzante che aspetta il favore delle tenebre per uscire di casa e combinarne di ogni. Uno sregolato Alex DeLarge dei nostri tempi.
Purtroppo però la realtà dei fatti non è così macchiettistica. Non siamo di fronte ad un colpevole capace di intendere e di volere, piuttosto quello che ci troviamo ad affrontare oggi è un male estremamente duttile che – per l’appunto – non sceglie da sé dove andarsi a scagliare con devastante violenza ma viene incanalato e indirizzato dalle scelte del governo (ovvero il reale responsabile dell’attuale scenario di sofferenza). Un male allo stato liquido che assume le forme dei contenitori sociali offertigli di volta in volta dai vari Dpcm, che si trova a scorrere libero all’interno dei fragili argini costituiti dal settore lavorativo.

Affermare che interrompere la movida notturna per un mese sia sufficiente ai fini di un reale abbassamento dei contagi dimostra, se creduto sinceramente, una grave miopia, se detto strumentalmente, una pericolosissima sconsideratezza. Di fronte ad un numero di contagi così elevato l’unico provvedimento sensato da prendere, per quanto non risolutivo, dovrebbe costituire una chiusura di qualsiasi ramo della produzione con una consequenziale ed istantanea erogazione di reddito, che consenta trasversalmente il lusso della quarantena. Lo gridavamo già sei mesi fa, quando iniziava a spopolare l’hashtag “#iorestoacasa”: nella sua drammaticità esistenziale la quarantena si sostanzia come indispensabile per affrontare i tremendi picchi di mortalità del Covid-19, ma come potercela permettere a cuor leggero?
Finché le nostre possibilità di vita rimarranno incatenate al concetto di salario, finché il nodo del reddito non riuscirà a slegarsi dall’impianto produttivo capitalistico, lockdown significherà morte per gran parte della popolazione.

Come studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici precari/e oramai sappiamo bene che cosa voglia dire ritrovarsi a vivere una quarantena o un semi-lockdown nelle condizioni di vita in cui siamo intrappolati/e. Non saremo disposti ad accettare così facilmente che di nuovo tasse universitarie esorbitanti vengano pagate per ricevere in cambio servizi limitati o nulli o spazi fisici e non solo inesistenti per la comunità studentesca. Tuttora, nonostante l’apparente apertura dell’Università, abbiamo visto eliminati tutti quei servizi che contribuivano alla garanzia del diritto allo studio; come se fosse per colpa della mensa o dei punti ristoro che la pandemia continua a dilagare, invece che a causa per esempio delle condizioni pessime in cui molte aule studio versano. Durante questi mesi abbiamo visto l’incremento di apparecchiature tecnologiche che tuttavia, in caso di nuovo lockdown, non cambieranno nulla nella vita di quanti e quante effettivamente vivono e attraversano l’Università. Abbiamo visto lo sperpero di denaro per pagare guardiani a tutte le entrare e uscite delle strutture universitarie piuttosto che investimenti per l’ampliamento di spazi per tutti e tutte, per garantire tamponi gratuiti a tutti gli studenti e tutte le studentesse, per la rigenerazione di stabili inutilizzati per far posto a coloro che sono rimasti/e tagliati/e fuori dagli studentati con posti ormai dimezzati.

Il bivio che infimamente ci viene imposto consiste nello scegliere se morire di Covid o morire di fame. Noi tutte e tutti crediamo vivamente nel valore sociale della cura collettiva, per questo pretendiamo di essere messi all’istante nelle condizioni economiche adeguate a non doverci più far compiere questa atroce decisione.
Qualche giorno fa dilagava per le strade di Napoli una sconvolgente ondata di rabbia sociale, che al suon di “Senza sorde nun se cantano messe” ha assediato le strade del centro palesando un’esigenza tanto straziante quanto stringente. Invece che soffermarsi a elaborare dietrologie e valutazioni asettiche su che composizione fosse presente in quelle piazze, ci si sarebbe dovuti focalizzare sull’esplicita richiesta di reddito che quegli striscioni, e la determinazione di chi li teneva, hanno dimostrato. Non siamo più né in condizione né disposti a subire un nuovo lockdown senza alcuna garanzia, pretendiamo che le scelte per la gestione di questa nuova fase pandemica siano in linea con le nostre rivendicazioni di SALUTE, SOLDI e DIRITTI!

Non ci interessa sopravvivere, ma pretendiamo immediatamente una vita (sia durante questa crisi, sia soprattutto superata quest’ultima) che trovi la sua genesi nell’orizzonte dei nostri desideri. In cui non ci si debba più accontentare dell’essenzialità del minimo, ma ci si appropri della totalità del lusso estendendolo all’intero tessuto sociale e, quindi, decostruendolo dall’interno.

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