Home / Approfondimenti / Sex work, stigma e cyber spazio

Sex work, stigma e cyber spazio

Tra condivisione di saperi e approfondimenti, riprendiamoci i nostri spazi!

A cura del Laboratorio Cybilla con Claudia Ska, Giulia Zollino, Maria Tinka ed il collettivo Inside Porn

Il mondo del web è quello in cui ci siamo ritrovat* a vivere sempre di più, sopratutto nell’ultimo periodo durante la pandemia. Un web che è stato utilizzato come arma dal patriarcato, che non rende questo strumento sicuro, vediamo come ultimo recente esempio quello della maestra di Torino; ce ne sono a milioni di esempi di come molti contenuti inviati privatamente vengano condivisi senza il consenso della persona protagonista di questo materiale fatto circolare sul web. Il patriarcato si è appropriato di questo strumento come arma e lo subiamo ogni giorno noi donne e tutte quelle soggettività non binarie e non conformi. Durante la pandemia, ed il conseguente lockdown, eravamo tutt* chius* nelle nostre case ed era quindi impossibile per lu sex workers lavorare per strada o nelle case, eravamo tutt* rinchius* nelle nostre abitazioni; molt* sex workers sono passati quindi al telelavoro sessuale. Lavorando nel mondo del web non si può, però, avere la totale sicurezza che il materiale venduto rimarrà esclusivamente alla persona a cui è stato venduto. Siamo qui per provare a riprenderci questi spazi, a condividere questo tipo di contenuti e ci teniamo a specificare che sono contenuti vastissimi e ricchi di sfaccettature. Abbiamo provato qui ad approfondirne una parte grazie alle esperte che hanno parlato con noi/voluto rispondere alle nostre domande. 

La prima domanda è rivolta a Giulia Zollino (“educatrice sessuale, operatrice di strada e cura un profilo di divulgazione su Instagram. Nel 2012 scappa da un paesino bigotto del profondo Veneto per studiare Antropologia a Bologna. Qui è dove inizia il percorso di scoperta di sé e della sua sessualità, che la porta allEducazione sessuale prima e al Sex Work poi”).
Ci interessa capire in che maniera hanno influito sul sex work gli effetti del Covid-19, in che modo è stato vissuto il periodo da chi pratica questa professione e quanto ha influito il web. Quanto incide oggi lo stigma verso queste lavoratrici e lavoratori?
 

A partire da marzo il mercato sessuale ha subito tantissime trasformazioni profonde, sia in termini di spazi che in termini di modalità, di condizioni di lavoro e anche di rappresentazioni che sono state date del lavoro sessuale. Intanto, come dicevi, le presenze su strada e anche gli annunci sui siti di incontri, quindi tutto il sex work che prevede un contatto fisico, è diminuito per forza di cose. è diminuita anche la domanda, soprattutto nei primi mesi di marzo e aprile, quando tra l’altro era molto frequente il tema della paura del contagio nei forum dei clienti, ci si scambiavano consigli su come continuare a fare sesso a pagamento ma evitare il contagio. Sono aumentate invece come dicevi le forme di telelavoro sessuale: tutte le forme di sesso online che vanno dalla produzione di contenuti, l’applicazione di questi su tutte le piattaforme come ad esempio Only Fans, ma anche alla cam, il sexting e le chat erotiche (esistono tantissime varietà di telelavoro sessuale). Si è implementato quel tipo di sex work lì. 
Non è stato possibile per tutte fare questo passaggio all’online perché significa esporsi; mentre il sex work su strada ti rende visibile ma fino ad un certo punto, un’altra cosa è produrre e pubblicare dei contenuti video o fare cam. Per molte persone è molto problematico esporsi perché spesso si corre il rischio di essere riconosciut* da amici e parenti, etc…

Lavorare online vuol dire anche banalmente avere una connessione, avere un’alfabetizzazione digitale e linguistica, avere uno smartphone, una e-mail, un conto in banca: queste sono cose che non tutte le persone hanno, quindi il telelavoro sessuale è stata un’opzione ma non per tutt* e questa cosa bisogna tenerla presente. Un altro problema è che ovviamente la pandemia ha evidenziato delle problematiche già esistenti, come non avere diritti ed essere dimenticat*, con la pandemia ancora di più. Le persone si sono trovate a vivere un’emergenza abitativa e alimentare, economica. Tra l’altro tante persone hanno iniziato a fare sex work proprio in questo momento, cosa che prima invece non facevano, spinte proprio dall’emergenza.

Le rappresentazioni sono cambiate, è tornato in voga quello che è stato definito un movimento “neo igienista” e quindi la rappresentazione della puttana come infetta, contagiosa, che è un evergreen usato dai tempi della sifilide, etc.. La lavoratrice sessuale viene rappresentata come possibile fonte di trasmissione del contagio, come un corpo infetto. Una cosa da evidenziare che ritengo una nota positiva sono state le organizzazioni di sexworkers che si sono attivate, si sono fatte sentire, hanno preso parola, hanno creato delle risorse; penso ad esempio alla guida per fare telelavoro sessuale, per iniziare a fare online ma anche per fare sex work in tempi di Covid in maniera un po’ più sicura, per quanto sia possibile. Hanno anche lanciato campagne di raccolta fondi, in Italia c’è stata la campagna lanciata da Ombre Rosse e dal comitato per i diritti civili delle prostitute, ma in tutto il mondo veramente ci sono state tantissime campagne e i fondi che sono stati raccolti sono stati importanti perché con quei soldi si è potuto aiutare tantissime persone in difficoltà.

Per quanto riguarda lo stigma invece è molto molto presente, vi racconto giusto un pochino di episodi molto brevi: nel 2004 una sex worker argentina, un’attivista, ha denunciato la corruzione della polizia e la violenza che subivano le sex worker da parte della polizia, ed è stata uccisa da un ufficiale di polizia. Nel 2019 a Bologna una donna trans sex worker è stata aggredita per strada con delle spranghe di ferro; il 21 febbraio 2020 a Parigi, Jessica Sarmiento, una donna trans, è stata intenzionalmente investita da un’auto. Potrei continuare all’infinito. Ci sono tantissimi episodi di violenza che colpiscono chi fa sex work, sopratutto le donne, che siano cis o trans; lo stigma è fortemente presente, assume tantissime forme, alcune più visibili, come queste, altre invece meno visibili e quello che bisognerebbe capire è che questo stigma non è soltanto un concetto astratto ma agisce in maniera violenta sulle vite di chi fa sex work e non soltanto, perché tocca anche le persone che stanno attorno a chi fa sex work, penso ad esempio ai familiari. Nell’ultimo numero di Frisson (ndr. “Frisson è un magazine indipendente trimestrale e nasce dalla voglia di raccontare e unire temi come sessualità, piacere, diritti e intersezionalità.Frisson è un magazine femminista, ma parlare di femminismo” (o di femminismi?) oggi significa rivolgersi a tutte le identità di genere e a tutte le sessualità, in modo trasversale. Racconta in maniera seria ma con un design ricercato e a tratti pop la cultura femminile, spesso storicizzandola.Miscelando il linguaggio illustrato a quello fotografico, il magazine risulta diretto ma non deleterio, ironico ma non banale”) abbiamo parlato proprio dello stigma che colpisce le figlie di puttana, cioè abbiamo intervistato la figlia di una sex worker, sempre argentina, che ha parlato di come è stata toccata lei stessa dallo stigma. Quindi lo stigma della puttana è contaminante. Lo stigma c’è, è vero, abbiamo però tanti strumenti per combatterlo, per contrastarlo e secondo me incontri come questo sono sicuramente un’opportunità e una ricchezza e anche il sintomo di un cambiamento che sta avvenendo: si sta parlando di questi temi, si sta uscendo piano piano dalla bolla e sono delle occasioni per farsi veramente delle domande e per andare nella direzione della de-stigmatizzazione del lavoro sessuale. 

Tornando al mondo del web e a come vengono rappresentati i corpi al suo interno, la seconda domanda la rivolgiamo al collettivo Inside Porn: come le multinazionali del porno rispecchiano i desideri sessuali di ogni individuo e quali sono i fattori per rendere un porno etico”?

Le multinazionali non riescono sicuramente a esaurire tutti gli immaginari possibili delle sessualità delle persone, ma dal nostro punto di vista questo non deve criminalizzare poi di conseguenza le multinazionali della pornografia. Sicuramente non possono assolvere a questo compito per il fatto che sono delle aziende, di conseguenza rispondono a una domanda ben precisa; quello che secondo noi è molto importante è cercare di ampliare il più possibile questa domanda, attraverso un incontro come quello che stiamo facendo, piuttosto che incontri che organizziamo noi o altre realtà che seguono il filone di intendere la pornografia con un utilizzo sociale effettivo. 
Cerchiamo di spostare l’attenzione sul fatto che la pornografia è sicuramente un’espressione di immaginario, ma l’immaginario è direttamente proporzionale alle identità che sono sulla terra. Di conseguenza infinite e in costante divenire quindi non ci sarà mai nessuna piattaforma realmente in grado di mettere in scena tutte le sessualità. Sicuramente quello che possiamo aggiungere a questo ragionamento nell’attualità è che una certa corrente di pornografia, che noi abbiamo identificato come quella mainstream, ha sicuramente suscitato in altre identità la necessità di essere rappresentate perché non si vedevano rappresentate in quella tipologia di pornografia, quello che è il post porno è di fatto la risposta a quel filone ovviamente molto etero-normato; quello che il post-porno fa è invertire questa tendenza e dire che esistono anche altri immaginari. 

Il discorso etico è un passo in più rispetto a quello che è il tema del porno. 
Sicuramente c’è una varietà molto vasta di sessualità all’interno dei siti più conosciuti però obiettivamente questo non va a coprire tutte le identità. L’identità sessuale è per lo più soggettiva, di conseguenza vanno a crearsi delle soggettività che decidono di mettere in scena la propria sessualità e di inserirla nel contesto pornografico perché in questa maniera è possibile rappresentarla anche. Tutto ciò, partendo dal presupposto che la maggior parte delle aziende multinazionali del porno o le piattaforme in cui il porno è più fruibile e vendibile, in ogni caso si caratterizzano per delle rappresentazioni molto iconografiche, molto reiterative di  quello che sono determinati atti sessuali e quindi di conseguenza le correnti alternative aspirano anche a rappresentare una sessualità un po’ più “naturale” rispetto a quelli che sono gli standard del mainstream, che d’altronde è un’industria che prevede la partecipazione di attori e attrici, e che di conseguenza si stacca anche un po’ da come noi viviamo la sessualità.

Da un punto di vista etico invece vediamo nascere delle piattaforme che vogliono avere un controllo dei contenuti rispetto a quello che viene pubblicato, su un piano internazionale si può citare tranquillamente Pink Label Tv, e in Italia la neonata UniPorn Tv, che sono due piattaforme che svolgono quello che è il ruolo della piattaforma mainstream, andare a prendere dei prodotti che sono di un circuito differente – di fatto la pornografia alternativa queer post-porno spesso si distribuisce anche attraverso festival e contatto diretto, andando a piazzarsi in un contesto culturale va ad inserirsi nel contesto festivaliero: diventa dunque difficile reperire un certo tipo di materiali e queste piattaforme cercano di rimuovere questo ostacolo e vanno a prendere quelli che sono i migliori prodotti delle più grandi produzioni queer, per andarle a mettere su queste piattaforme online. 

Ci sarebbe da sottolineare anche altri aspetti. Parlando di multinazionali del porno si utilizza un termine molto ambiguo: il porno inteso a livello di industria e di mercato è composto da soggettività differenti che possono essere le piattaforme di distribuzione sopra citate ma anche le produzioni. Il discorso su “etico” o no e sulle multinazionali, costruito in termini negativi e che ha come contraltare l’“alternativo”, in accezione positiva, è pericoloso perché in un certo senso spinge a demonizzare il porno; la vera problematicità sul discorso etico è diventata più evidente in questo contesto. L’eticità si può spiegare banalmente con la semplice regola del consenso: se c’è consenso legato a quel prodotto pornografico e alla sua distribuzione quel prodotto in sé è etico, a prescindere da cosa metta in scena. Non vorremmo ricadere in un discorso più “moraleggiante” che riguarda cosa è giusto e cosa non è giusto mostrare, che cosa può essere lecito vedere e cosa dobbiamo di nuovo cacciare nella sfera dell’oscenità. Il nostro discorso deve andare oltre a questo: se si parla di pornografia etica si parla semplicemente di porno prodotto secondo determinati criteri, che cambiano a seconda anche di quello che è l’ambiente che lo produce. è chiaro che una multinazionale avrà dei contratti in mano con i propri performer e quindi l’eticità si spiega in modo diverso, in altri contesti si declina in altri modi. La regola base crediamo che sia sempre quella del consenso alla creazione e alla distribuzione di questo prodotto, per il resto non esiste un porno etico o non etico. A grandi livelli il tema dell’etica è molto forte, la problematicità dell’eticità di un prodotto nasce nel momento in cui la struttura non è professionalizzata, probabilmente, o comunque c’è molto banalmente una corruzione generale dell’atto che si sta razionalizzando, fra due persone o aziende che hanno consapevolezza di cos’è un rapporto sessuale consensuale, e della sua ripresa, il processo è intrinsecamente etico. Nel momento in cui sono una persona che in fondo non ha ben chiaro questo, o semplicemente non si interessa all’eticità del prodotto perché è interessata semplicemente a lucrarci sopra, allora lì non c’è ovviamente eticità. Non crediamo però che questo dipenda dall’essere una multinazionale o meno, dipende invece, e torniamo sempre lì, dall’educazione sessuale, a come ci si relaziona con questo macro argomento. 

La terza domanda la rivolgiamo a Maria Tinka. Vorremmo sapere come è cambiato il tuo lavoro durante la pandemia e, dopo gli episodi di quest’estate – in cui ti sei esposta a favore della libertà di esporre il proprio corpo nudo, abbattendo la dicotomia di corpo visibile legittimo e corpo nudo osceno – vorremmo sapere come concili la tua vita con il desiderio di fare il tuo lavoro e quindi anche con il desiderio di riscrivere codici e norme.

Io sono stata sempre molto presente anche nel web, tutto ciò che era live (ndr. Dal vivo) si è interrotto, qualcosa sono riuscita a passarlo in virtuale, sopratutto il sex counceling e come cam girl ho continuato e ho intensificato. Devo dire che tutto sommato me la sono cavata bene dai. 
Per quanto riguarda l’episodio estivo partiamo dal racconto, dato che l’argomento è molto grande.
Io mi trovavo al mare con la mia famiglia, i miei figli, i miei nipoti, eravamo in tanti e quando c’è stata la scena mi sono domandata se questo avrebbe penalizzato le persone a me legate, prima ancora che me, perché io poi sono responsabile delle mie azioni e credo che questo forse è quello che una mamma teme di più dello stigma; lo stigma è qualcosa che io o i miei cari pagheremo caramente, è come un mirino che ti si punta addosso e tu sai che la società è pronta a punirti per la tua disubbidienza e lì ti domandi “adesso cosa faccio?” e lì sono scelte personali. Io so che non ho alternativa, è questione anche di dignità personale e di rispetto nei confronti del mio aver procreato. Non posso tirarmi indietro davanti ad una situazione nella quale mi si chiede di aver vergogna del mio corpo: o tu hai vergogna del tuo corpo, di ciò che sei e di ciò che senti o noi ti facciamo vergognare per tutta la vita perché tu hai osato spiattellarci in faccia che non ci stai. Io preferisco affrontare quello che può essere lo stigma sociale piuttosto che la vergogna di non essere stata in grado di essere me stessa, non è per essere me stessa ma per essere leale con le persone che mi sono attorno; tu adesso dici che quella è una puttana, una cam girl, ma io sono una mamma, sono una moglie, sono Maria Tinka, sono me, voglio scoprire momento per momento chi sono, lo stigma mi incolla, mi pietrifica, mentre io sono qualcosa che evolve e io decido di fare la mia narrazione secondo quello che incontro passo passo. Secondo me questo è quello che quando penso allo stigma vorrei raccontare alle ragazze e ai ragazzi che si trovano a doversi confrontare con la minaccia dello stigma; poi in realtà la vera sfida è con se stessi. Dopo che ho sconfitto la paura che ho di questo stigma, quando le persone si relazionano a me vedono me e non vedono più lo  stigma perché io  l’ho superato… superandolo io l’ho superato anche per loro. 

Facendo riferimento all’episodio di quello che è successo alla maestra di Torino (ndr. una maestra d’asilo che aveva condiviso un proprio video intimo con un uomo, che lo ha condiviso con molte altre persone fino a far esplodere un caso mediatico che ha portato al licenziamento della donna in quanto “non adatta” ad essere educatrice, insegnante, a relazionarsi con i bambini), che comunemente viene chiamato “revenge porn”, rivolgiamo la quarta domanda a Claudia Ska, e chiediamo: questo termine, di cui sentiamo molto parlare in questo periodo, è un termine adatto per descrivere questo atto e quello che comporta?

Secondo me “revenge porn” è un termine assolutamente improprio, fuorviante e sopratutto che va ancora una volta a denigrare il concetto di pornografia. Prima di questo, ci sono le persone che vengono accusate di essere delle “persone poco serie” perché si sono trovate in una situazione che definiamo appunto revenge porn. Per me l’espressione è impropria in generale innanzitutto perché, ci tengo a precisare ogni volta, non si tratta di “revenge” (vendetta) perché queste azioni spesso sono portate avanti senza un motore che sia acceso e spinto da ragioni vendicative: semplicemente è cultura e noncuranza, superficialità, mancanza di rispetto nei confronti di un patto tacito privato che sottoscriviamo con delle persone con cui ci troviamo per esempio a fare sexting. Dall’altra parte invece il termine “porn” è assolutamente improprio, perché la pornografia è una rappresentazione – professionistica o non professionistica (amatoriale) che sia – ma è una rappresentazione: decidiamo di mettere in scena una situazione, dei personaggi e un immaginario. Invece la sessualità, gli atti sessuali che compiamo nell’intimità, che siano con una persona, da soli/e o in gruppo, costituiscono un evento privato, intimo, quindi dire che il sesso, nel momento in cui viene condiviso pubblicamente (per altro in modo non consensuale), sia pornografia è improprio, è fuorviante. In pratica significa che tutt* in realtà non scopiamo ma facciamo porno; cioè io non faccio sexting ma faccio porno, io non faccio sesso con il mio o la mia partner ma faccio porno se decido di riprendermi. Ma non è cosi, il porno è un’altra cosa e dobbiamo relegarlo nell’ambito del porno. Quindi già tutta questa definizione crea secondo me una ambiguità nell’evento, per di più perché quello che noi chiamiamo (secondo me erroneamente) “revenge porn” crea sempre così disagio, stupore, rabbia perché di fatto chi si trova coinvolto/a in questi eventi si sente di doversi giustificare: ma il punto è che se la sessualità non venisse così stigmatizzata e mortificata non avrebbe neanche senso il revenge porn o quello che chiamiamo così.

Perché il fatto che il mio corpo nudo o un atto sessuale che io compio viene condiviso pubblicamente anche contro la mia volontà mi dovrebbe mortificare più di un’altra cosa? Al massimo mi fa incazzare perché non ti ho dato il consenso di condividere quella cosa, perché quella era una cosa che io ho condiviso con te/voi, è una cosa circoscritta a un evento intimo, privato che riguardo solo le persone coinvolte, quindi se io non ti ho dato l’ok per permetterti di farlo vedere a chiunque quella cosa deve rimanere circoscritta a quell’episodio, a quell’evento.

Perché ci fa sentire così mortificati il fatto che il nostro corpo nudo o il fatto che noi come esseri desideranti e sessuali veniamo fuori? Perché ci dovrebbe mortificare di più, perché dovrebbe essere cosi aberrante che lo faccia una maestra? ”Ah la maestra, l’educatrice che mio dio mandava le foto a quello che per altro all’epoca era anche il suo partner”?! Cioè, siamo essere umani, abbiamo una vita e delle fantasie sessuali, non c’è niente di male, non c’è niente di male ad esprimerla come ciascun*, crede quindi anche con foto, video, uno scambio virtuale. Il “revenge porn” si fa dunque forte di uno stigma che prima ancora è uno stigma sui desideri, sulla sessualità degli individui: noi non siamo legittimat* come esseri desideranti, oppure il desiderio è legittimato tra le pareti domestiche, fatto in un certo modo, ma non deve uscire da lì, c’è il tabù nel momento in cui questa cosa esce fuori. Secondo me il problema principale è che questi documenti visuali o anche scritti, inizialmente privati, diventano pubblici senza che tutte le persone coinvolte abbiano deciso che diventasse pubblico, ma al contrario qualcun* arbitrariamente si è arrogat* il diritto di condividere quel materiale. Per me non è un aggravante che venga fuori la componente sessuale, diventa un aggravante solo perché appunto il sesso è sempre biasimato e quindi sembra che tutto ciò che ha a che fare con la sessualità sia sempre peggio. 

Io adesso sto per dire una cosa che so assolutamente non essere condivisa, me ne assumo le responsabilità ma la penso cosi: io provo molto fastidio quando si fa una distinzione tra violenza e violenza sessuale; perché la violenza sessuale dovrebbe essere intesa come qualcosa di peggiore? A me fa schifo la violenza, poi non me ne frega come questa si manifesta, se a manganellate o se con un rapporto sessuale non consensuale. Io trovo assurdo che si usi sempre la sessualità per aggravare o sminuire le cose, che poi sono due facce della stessa medaglia. Ripeto quindi, ancora di più il termine “pornografia” sembra sempre un metro di paragone per sminuire le persone, gli eventi, i concetti; lo vediamo per esempio anche con il termine di pedopornografia, anche lì non è pornografia, è violenza sessuale verso dei minori. La pornografia è fatta dagli adulti che hanno voglia di rappresentarsi e rappresentare degli immaginari, di mettere in scena delle fantasie e quindi l’uso di questo linguaggio secondo me non fa altro che alterare e rendere sempre più ambiguo il dialogo: ecco perché secondo me non riusciamo mai a capirci, perché partiamo dalla base di un dialogo fondato sugli equivoci e quindi sarà un eterno fraintendersi. Se già in principio le basi sono quello che sono, dobbiamo cambiare il nostro modo di esprimerci ed innanzitutto il nostro modo di approcciarci a questi argomenti e a queste persone. 

Inside porn commenta a riguardo:

Il punto è che il fenomeno che viene comunemente e impropriamente definito “revenge porn” è un reato collegato alla privacy: tu stai condividendo qualcosa alla cui condivisione io non ho dato consenso ed è quello il problema, non tanto che tu stia condividendo un mio atto sessuale. Qualsiasi sia il contenuto che tu stia condividendo senza il mio consenso, stai violando un mio diritto quindi è un problema in realtà legale che si sta, con l’uso del linguaggio, cercando di far diventare un problema “morale” ancora una volta. Qua l’errore molto grosso è che la problematica della privacy venga poi derogata al pubblico e alla popolazione che non è in grado di gestire minimamente una problematica simile, perché non dovrebbe farlo; la privacy, a livello ideale, dovrebbe essere gestita da coloro che tutelano la popolazione. Al contrario quello che spetta a noi come singoli è imparare a relazionarci col sesso in una maniera completamente diversa da quella che abbiamo adesso, perché è colpa nostra in senso generale il fatto che ci siano delle persone che si sentono legittimate a condividere un determinato prodotto, mentre dall’altra parte è altrettanto importante naturalizzare quello che è poi la sessualità. Quello che diceva Claudia è il non stigmatizzare in principio qualunque rapporto sessuale, doversene vergognare e di conseguenza non poterne parlare piuttosto che non sentire un agio nell’affrontare quelle argomentazione. 

Claudia: secondo me bisogna fare attenzione, appunto, a come si raccontano gli aguzzini. Riprendendo la vicenda dell’educatrice di Settimo Torinese, è stato facile fare la caccia alle streghe, sia in un senso che in un altro. Non dico che le persone coinvolte in questa vicenda non debbano assumersi le proprie responsabilità e pagare secondo quanto si ritiene giusto che debbano pagare, ma dall’altra parte anche dire “ah il maschilismo, ah il patriarcato”… perché (e questa storia lo evidenzia in maniera plateale) questo evento è diventato così grande proprio perché tantissime persone c’hanno messo bocca e hanno fatto la loro parte. Questo fa capire quanto il problema non sia degli uomini bastardi maschilisti cis, bianchi, borghesi – che sta diventando un po’ mantra ma francamente ha rotto il cazzo dal mio punto di vista -: scusate se non faccio giri di parole ma sono veramente stufa di tutta la retorica e il dogmatismo che c’è dietro certi discorsi, secondo me è proprio un problema nostro generale, culturale, non possiamo più farne un  problema di patriarcato, o non patriarcato, i maschi, le femmine, le persone transgender… Questa è una responsabilità nostra, culturale, perché la nostra cultura è intrisa di questi pensieri e quindi mettiamo in atto questi comportamenti, nella maniera più quotidiana e superficiale possibile, ogni volta che condividiamo lo screenshot di una chat e lo portiamo in un altro contesto è l’esempio proprio e palese di come noi superficialmente usiamo i contenuti che gestiamo online. Se lo fai in maniera automatica lo fai con tutto probabilmente; non ti porrai il problema che quello che stai facendo potrebbe ledere la sensibilità di un’altra persona e, per come stanno le cose, purtroppo anche la dignità. Perché non ci facciamo due domande prima di compiere delle azioni e purtroppo in questo senso la nostra mancanza di educazione informatica, oltre che probabilmente etica, ci porta ad agire con leggerezza insieme a tutta una serie di contenuti che ci troviamo a gestire quotidianamente.

Maria Tinka:

Volevo aggiungere una cosa. Il materiale pornografico è trattato dall’utente sempre come oggetto pornografico, quindi qualunque scena di sesso, in internet, viene trattata come materiale pornografico senza pensare minimamente che dietro c’è una persona. Se ti va bene ed è veramente tratto da una scena consensuale e immessa ok, se ti va male ed invece è appunto una scena che viene da un altro background eppure viene utilizzata in maniere cinica e totalmente de personalizzata. É una cosa che – a me che immetto il mio materiale perché lo voglio fare – dà da riflettere: è come se la persona dall’altra parte iniziasse a utilizzarti come un servizio di cui sei l’erogatore, diventi una funzione. La vera domanda per me è: perché noi non ci stiamo chiedendo perché una donna non può fare sia l’insegnante che scopare, mandare foto e volendo pure pubblicare pure contenuti su PornHub lei stessa di pugno suo, perché no?

Insideporn:

Per noi, fondamentalmente prima si è demonizzato qualcosa – che è la sessualità -, poi si è costruito un linguaggio attorno, che costituisce e agevola la costruzione di questo stigma. è chiaro che tu non vivi una dicotomia, la tua sessualità fa parte della tua vita, quindi fa parte della tua vita in qualsiasi momento, anche quando stai svolgendo un lavoro: e il lavoro è lavoro, non mi definisce come persona. Il problema è che cresciamo in una società in cui ci viene insegnato che quella determinata cosa deve rimanere privata, per cui nel momento in cui viene resa pubblica ci si stupisce che anche quella categoria li “faccia sesso”, che anche una maestra d’asilo non sia la “donna casta che deve insegnare ai figli la moralità della famiglia e della costruzione della vita in un determinato modo”, ma no, anche lei fa sesso!
Secondo me questo non è una situazione che capita solo alla donna, ci sono fior fior di mestieri per cui ti è richiesto di firmare nero su bianco: se ti piace il BDSM nel tuo ambito privato quel mestiere non lo puoi fare o hai una denigrazione sociale intorno tale che tu probabilmente non sarai in grado poi effettivamente di compiere il tuo mestiere. Secondo me questo è sopra le parti: in Italia, se vogliamo fare un discorso vicino a noi, la condotta morale in ambito sessuale è strettamente legata al lavoro. Sicuramente ci sono poi della sfumature diverse in ambito di generi, però questa lettura va scardinata e divisa: il mestiere non è l’identità della persona, nella più rosea delle aspettative è lo stratagemma che ha trovato per campare, può piacere o non piacere ma il lavoro è quello, la sessualità non è qualcosa ci si sceglie per portare la pagnotta a casa.
Determinate cose sono considerate disdicevoli da una morale comune e mi viene chiesto come lavoratore o lavoratrice di dover dar conto anche di quello che è la mia vita privata, che non dovrebbe interessare al mio datore di lavoro. Se io il mio lavoro lo faccio bene e la sera mi piace farmi scopare da dieci persone sono affari miei, o se mi piace drogarmi dalla mattina alla sera ma poi torno li e le mie mansioni sono rispettate e svolte al meglio, tu quello dovresti giudicare.

Maria Tinka:

Fare analogia con la droga è pericolosissimo, però io devo dire che una sana vita sessuale e anche un’emancipazione dei costumi può essere giovamento a tutte le figure professionali, tanto più le figure dell’accudimento. L’accudimento di un infante è assolutamente analogo all’accudimento di un cazzo, perché quanto più tu accudisci bene il cazzo tanto più sei accudente con un infante, quindi veramente a rigor di logica e la natura ce lo insegna perché chiavi e poi fai gli infanti, la puttana e la maestra vedo che sono due abilità che si danno una mano a vicenda! Quindi facciamogli delle lezioni in questo senso e non sto scherzando, io per essere una brava mamma do sfogo a tutto il mio amore e sono una mamma migliore. Io mi domando perché le cose vere uno non le deve dire, mi domando come mai uno deve girare intorno e non deve dire che è scandaloso che venga licenziata una donna perché sono state trovare le sue immagini in internet. Pure se le avesse messe lei facendo la zozzona all’ennesima potenza, uguale.

Domanda per Giulia. Volevo chiederti più nello specifico come lo stigma della puttana colpisce tutte noi donne, vediamo che sopratutto fin da quando siamo più giovani è una parola che ci colpisce quotidianamente e volevo chiederti di entrare nello specifico.

Si, è uno stigma che tocca tutte, perché tutte almeno una volta nella vita ci siamo sentite chiamare puttane troie zoccole.. tocca tutte ed è forse un punto di unione tra chi fa sex work e chi non lo fa. Chiaramente c’è da dire che il modo in cui tocca una persona che fa sex work, cioè chi fa la puttana veramente, è un’altra cosa: mi ricordo anche un pezzo di Claudia in cui dice “si bello faccio la puttana però un altra cosa è fare veramente quel lavoro”, quindi non si può negare una specifica dello stigma che attraversa proprio chi fa sex work che è uno stigma costitutivo, identitario. Oggi parlavo con una persona dello stigma che colpisce i clienti, si tratta di uno stigma non identitario, il cliente viene stigmatizzato quando entra in contatto con una puttana, cioè la puttana viene stigmatizzata sempre, è puttana h24, il cliente invece è stigmatizzato in quel momento preciso ed è una conseguenza dello stigma che ha la puttana, la sex worker. 

Inside Porn:

Ci piacerebbe specificare cosa comprende la parola sex worker, banalmente parlando a livello potenziale siamo tutte sexworker, già affrontare delle tematica legate alla sessualità con un certo intento, non soltanto scientifico/biologico ma volendo arrivare a determinati punti, fa parte in fondo di sex work. Noi abbiamo concepito questa cosa tanto tempo fa, incontrando una signora che si chiama Laura Merit, che vive a Berlino ed è un’attivista ed autrice di libri e manuali sulla sessualità femminile; lei già all’epoca, quando ancora il termine sex worker non era così tanto sdoganato, ci diceva “Io faccio la sex worker perché passo 5 giorni della mia settimana a organizzare laboratori e workshop di sensibilizzazione su determinate tematiche”. Dunque in realtà il mondo del sex work è infinito, perché prende la divulgazione ma prende anche poi ad esempio tutta una fascia di lavoro sessuale che raccoglie il mondo della disabilità che fa assolutamente altrettanto parte del mondo del sex work, che si chiama assistenza sessuale. Quindi fondamentalmente il mondo dei sex worker è molto più ampio di quello che possiamo immaginare e prende categorie professionali completamente diverse.

Giulia Zollino aggiunge:

Su questo sono un po’ divisa, perché da un lato mi piace l’idea di ampliare il termine sex work e quindi includere anche delle persone che si occupano di sessualità facendo laboratori, chi è sessuologo o sessuologa, ecc… dall’altro, però, ho paura di escludere la specificità dei bisogni di chi fa sex work “tradizionale”, non in maniera ampliata, e ha delle necessità probabilmente diverse in qualche modo che non ha probabilmente chi fa il sessuolog*. Quindi ho paura che ampliare troppo faccia perdere di vista delle esigenze più specifiche.

Maria Tinka aggiunge:

Io vorrei dire il mio vissuto: mi sono trovata ad entrare nel mondo della prostituzione a seguito di una serie di scelte che venivano in realtà da tutto un altro percorso, ci sono arrivata prima per concetto e devo dire che riconosco nella vostra richiesta di ampliare il termine una necessità di riconoscere il bisogno di andare oltre qualcosa tutt* assieme. Questo è qualcosa che può essere cruento in una dimensione, ma è cruento in maniera diversa per tutt*, ed è vero che toglie le specificità però forse in qualche modo ne rivela un significato più profondo.

Claudia Ska:

Mi piace ciò che ha detto Maria, ma capisco ciò che ha detto Giulia. Mi piace molto un suo articolo, pubblicato sul blog La camera di Valentina, che parla proprio della discriminazione intra-classista all’interno di chi si definisce una lavoratore o lavoratrice sessuale. Questa piramide, che vede al culmine la sugar baby, escort etc fino ad arrivare al livello più basso, non riconosciuto, la prostituta su strada. Quindi anche io temo che riconoscerci tutt* come sex worker perché ci occupiamo in vari modi di questi termini può effettivamente, per come stanno le cose, togliere potere e luce a chi effettivamente pratica il lavoro sessuale – a prescindere dalla sua mansione, che faccia prostituzione letteralmente detta, che sia un* performer pornografico etc – perché siamo talmente mess* male a livello di tutele e riconoscimenti, o dei diritti e di ascolto stesso. Che poi banalmente, a parte Maria, stiamo qui a parlare di persone che in questo momento non ci sono, quando la cosa importante è che siano loro stess* a dire di cosa hanno bisogno e a chiedere delle leggi: noi possiamo supportare, ma rimane sempre un “parlare per altr*”, quindi è giusto che noi parliamo insieme a queste persone ma non per queste persone. Ho paura di sostituirmi a chi non ha i miei stessi bisogni, io quei bisogni voglio cercare di capirli e supportarli con empatia ma so che non li capirò fino in fondo perché non vivo quelle stesse situazioni. Dato che io non vivo quello stigma fino in fondo, perché tutt’al più mi sfottono perché parlo di sessualità e mi piace molto scopare e lo dico liberamente, non è la stessa cosa, non devo ogni giorno lottare per essere riconosciuta come persona e come lavoratrice, tutti comunque – anche se storcono il naso – legittimano il mio lavoro. Diversa è tutta la questione legata al pagare le tasse, certo tutti rompono le balle a chi fa un lavoro sessuale perché paghi le tasse però poi li sminuisce, e no carino se pago le tasse devo essere riconosciuto esattamente come te. Ora come ora, credo che sia necessario che chi fa attivamente lavoro sessuale stia bene in vista e noi tutt* insieme a supportare.

Domanda dai commenti: mi viene da riflettere su quanto sia difficile creare momenti di educazione non solo dentro le scuole, e spesso il primo ostacolo che si trova sono proprio le famiglie dei/delle bambin*. Vi è mai capitato di avere esperienze nelle scuole?

Giulia Zollino

A me è capitato soltanto in due scuole superiori perché conoscevo una delle professoresse che ha voluto facessi vari percorsi di educazione sessuale li. Posso dire che ho provato a contattare tantissime scuole e la risposta è stata veramente assente in tante nelle scuole sopra citate.

Inside Porn:

Il problema delle scuole è strutturale, la scuola è il riflesso di un’idea di comunità, educazione etc. quindi è ovvio che la scuola non faccia nulla per educare sulla sessualità, perché non è mai stata una prerogativa del nostro stato dare un’educazione alla sessualità che andasse oltre la mera procreazione, e sulla stessa non ti dicono neanche che fare di fatto. Quello su cui bisognerebbe invece ragionare è che paradossalmente le nuove generazioni sono molto più scafate rispetto ai proprio genitori e quindi poi i paletti vengono spesso da generazioni che quella censura sulla sessualità l’hanno vissuta ancora di più, cui il capirsi con sé stessi è stato proprio impedito e di conseguenza un uomo di 50 anni che ha condotto tutta la sua vita seguendo una determinata strada è difficile che pensi che sia sano e positivo insegnare al figlio adolescente quali siano le precauzioni, dirgli che il sesso è sano ed è normale che voglia scopare. Questo nella nostra società non c’è, penso che tutte noi siamo d’accordo nel dire che sia un’esigenza importante e che la pornografia non può in toto assolvere a questo compito, perché sicuramente ci sono registi e produzioni che negli ultimi anni vogliono fare educazione sessuale attraverso la pornografia però la maggior parte ha sicuramente delle altre intenzioni: quello che c’è da fare è far capire che la sessualità va educata e che siamo noi a dover richiedere che queste situazioni si creino all’interno delle istituzioni… le istituzioni non cambieranno solo perché è il momento di farlo.

Diciamo che ci piacerebbe andare nelle scuola ma non ci invitano, perché il porno nelle scuole non è bene accetto. Secondo noi non tanto di un porno educativo ma ci sarebbe un estremo bisogno di un’alfabetizzazione al porno, banalmente spiegare che molto spesso quello che stanno guardando è un prodotto di finzione.

Maria Tinka replica:

Trovo antitetico al sistema scolastico e conosco solo mamme che potrebbero fare di tutto pur di non fare arrivare una cosa del genere ai proprio figli. L’idea che qualcuno che non sia un prete o medico parli di sessualità al loro figlio, può essere solo una cosa inopportuna, molesta, viscida, già di per sé un atto sessuale… credo che sia utopistico il contrario in questo momento.

Claudia Ska:

Perché mi devono educare al sesso? Trovo sia più utile avere due coordinate di base, anatomiche e navigare a vista per paura del rischio di trasmettere informazioni coercitive. Non sono d’accordo con educare alla sessualità. Credo sia opportuna educare ai codici, cosa sto guardando? É un documentario? Tra l’altro, anche il documentario ha una sua componente di finzione… il concetto è per me quello di rappresentazione di codifica dei codici, cioè fornire strumenti per diventare persone indipendenti ed autonome nei confronti di certi linguaggi e concetti, ma non di voler proteggere.

Leggi anche:

Genova, o l’evento imprescindibile

Caro Carlo Nel bel mezzo di un ventennale in cui da tutte le parti ci si sporca la bocca sproloquiando, reinterpretando, e dissociandosi, noi continuiamo a raccogliere da terra quell'estintore. Cospirando, combattendo e sognando.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi